È uno sguardo basso. Una porta sbattuta. Un silenzio ostinato o a volte è un urlo. Una provocazione. Un atto estremo. La rabbia dei giovani non sempre si mostra con parole chiare. Spesso si traveste da indifferenza, da noia, da disprezzo. Ma dietro, c’è un grido: “Guardami. Ascoltami. Riconoscimi”. Viviamo in un tempo che corre veloce, ma che ascolta poco. E i giovani, immersi in un mondo iperconnesso e iperesigente, faticano sempre più a trovare un posto dove poter essere semplicemente se stessi: imperfetti, fragili, veri. Una rabbia che nasce dal vuoto. La rabbia adolescenziale e giovanile non è nuova. È parte del processo di crescita, di separazione, di identità. Ma oggi sembra più cupa. Più solitaria. Più esplosiva. Perché? Perché spesso nasce dal vuoto. Dal vuoto di senso. Di dialogo. Di riconoscimento. Una generazione che vive tra aspettative irraggiungibili, precarietà esistenziale, solitudine emotiva. Hanno tutto, ma non si sentono visti. Vivono in mezzo alla folla dei social, ma si sentono soli nel cuore. Ricevono milioni di stimoli, ma pochi spazi per essere davvero. L’equilibrio fragile tra identità e rifiuto. Molti giovani oggi oscillano tra l’ansia di essere accettati e il desiderio di ribellarsi. Un’identità costruita su “mi piace” digitali, ma senza veri specchi emotivi. E così, quando si sentono giudicati, ignorati o esclusi, la rabbia monta. Non è solo protesta. È una richiesta disperata: “Dammi un posto nel mondo”.Perché ogni atto aggressivo – dal bullismo alla violenza verbale, fino ai gesti più estremi – è spesso il sintomo di un’identità che non sa come reggere il rifiuto.Famiglie che faticano, adulti che tacciono. Molti adulti non sanno più come parlare ai giovani. Li etichettano: “viziati”, “fragili”, “iperconnessi”, “impreparati alla vita”. Ma raramente si chiedono: da chi hanno imparato? Chi ha insegnato loro a stare nelle emozioni? L’ascolto non giudicante è un’arte che gli adulti spesso dimenticano. E i giovani, allora, si chiudono. Si rifugiano nei gruppi, nei videogiochi, nei social, nelle stanze interiori dove nessuno entra. Cosa può fare la psicologia? Può aprire varchi. Può offrire uno spazio sicuro dove essere visti senza essere giudicati. Può aiutare i ragazzi a dare nome a ciò che provano: rabbia, paura, senso di inadeguatezza. Può accompagnarli a trasformare l’aggressività in energia creativa. Perché dietro ogni rabbia, c’è un bisogno non ascoltato. Il coraggio di chiedere: “Come stai, davvero?” C’è una domanda semplice che può cambiare tutto. “Come stai, davvero?” Una domanda che apre. Che non pretende. Che non offre subito una soluzione, ma uno spazio. Perché molti giovani non cercano risposte perfette. Cercano presenza. Cercano orecchie che non interrompano. Cercano cuori disposti a restare anche quando non capiscono. La rabbia come ponte, non come condanna. Etichettare i giovani come arrabbiati non serve a nulla. Serve decodificare quella rabbia. Capire cosa racconta. Cosa manca. Cosa implora. La rabbia, se ascoltata, può diventare dialogo. Se ignorata, può diventare danno. Se accolta, può essere l’inizio di un ponte tra generazioni. Perché ogni ragazzo che urla, in fondo, sta solo dicendo: “Non lasciarmi solo con quello che sento”.
Educare all’emozione: come cambierebbe il mondo se ci insegnassero a sentire
C’è una lezione che nessuno ci ha mai insegnato. Una materia che non compare nei programmi scolastici, ma che decide la qualità della nostra vita:l’educazione emotiva. Sapere come si sente la rabbia. Dare un nome alla paura. Riconoscere la gioia. Stare nel dolore senza vergogna. Saper sentire, in un mondo che ci spinge a funzionare, è un atto rivoluzionario. E forse, se ci avessero insegnato a farlo fin da piccoli, oggi saremmo tutti un po’ più liberi. Ci hanno insegnato a contare, a parlare, a scrivere. A rispondere in modo educato, a non disturbare, a non piangere troppo. Ci hanno spiegato la grammatica, ma non ci hanno mai insegnato a coniugare il verbo provare. Così siamo cresciuti imparando a nascondere le emozioni, non a viverle. A trattarle come qualcosa di scomodo, da controllare o ignorare. Come se sentire fosse un errore. La tristezza che non sai dire diventa silenzio. La rabbia che non puoi esprimere diventa esplosione. La paura che non sai nominare diventa blocco. L’amore che non sai gestire diventa dipendenza. Le emozioni non espresse si trasformano. E spesso si fanno male. A noi. Agli altri. Al mondo intorno. E se invece imparassimo a sentirle? Se ci fosse una scuola in cui ci insegnano a riconoscere quello che sentiamo. A dire: “Ora mi sento in colpa, ma posso imparare a perdonarmi”. “Sono arrabbiata, ma posso ascoltare cosa c’è dietro.” “Ho paura, ma non sono la mia paura”. Sentire non è debolezza. È intelligenza emotiva. È consapevolezza. È maturità. In un mondo dove si insegna l’empatia, ci sarebbero meno violenze. Meno solitudini. Meno reazioni impulsive e relazioni tossiche. Perché un bambino che impara a gestire la rabbia, diventerà un adulto che non la sfoga sugli altri. Una ragazza che impara riconoscere la paura, diventerà una donna capace di proteggersi e scegliere. Un adolescente che impara a dire: “sto male”, forse non cercherà di spegnersi nel silenzio. Il mondo cambierebbe. Ma anche noi. Se imparassimo a sentire, saremmo più umani. Più presenti. Più autentici. Impareremmo a chiedere aiuto, a dire di no, a lasciarci attraversare senza crollare. Perché chi sa stare con le proprie emozioni, non ha bisogno di dominarle. E nemmeno di negarle. Il cuore ha bisogno di una lingua. Educare all’emozione significa dare al cuore le parole che gli sono sempre mancate. Non per renderlo razionale, ma per renderlo libero. Perché un’emozione ascoltata non è più un nemico. È una guida. Un messaggio. Un alleato. Forse il mondo non ha bisogno solo di nuove regole. Ha bisogno di nuovi alfabeti emotivi. Perché solo chi sa sentire… può davvero imparare ad amare.
Sesso e intimità dopo i 50: verità, tabù, rinascita
C’è un momento nella vita in cui il corpo cambia, ma il desiderio non se ne va. Si trasforma. Si fa più profondo, più silenzioso, più vero. È il sesso dopo i 50. Un territorio ancora pieno di tabù, ma anche di libertà. Una terra da riscoprire. Senza fretta. Senza vergogna. Con amore. La cultura dominante ci ha abituati a pensare che il desiderio abbia una data di scadenza. Che il piacere sia roba da giovani. Che la pelle, le rughe, la menopausa o l’andropausa cancellino automaticamente il bisogno di intimità. Il desiderio cambia forma, ma non muore. Si fa meno impulsivo, più consapevole. E proprio perché ci si conosce meglio, può diventare più intenso. Più autentico. Più libero. Dopo i 50, il corpo chiede altre attenzioni. Non risponde più con la stessa immediatezza. Ha bisogno di tempo, di ascolto, di complicità. Ma in cambio, regala qualcosa che da giovani spesso manca: la capacità di restare. Di sentire davvero. Di amare con presenza. È qui che il sesso diventa intimità. Non solo atto, ma connessione. Non solo passione, ma ascolto reciproco. Non solo stimolo, ma emozione. Molte donne, dopo la menopausa, smettono di sentirsi desiderabili. Molti uomini, con l’avanzare dell’età, si confrontano con l’ansia da prestazione. Entrambi spesso si portano dietro un peso: l’idea di dover essere sempre “all’altezza”. Ma il sesso dopo i 50 non ha bisogno di performance. Ha bisogno di verità. È nel lasciarsi andare che si riscopre il piacere. È nel togliersi le maschere che nasce una nuova forma d’amore. Ci sono donne che, per la prima volta dopo anni, iniziano a godere davvero. Perché ora sanno cosa vogliono. Perché ora non si vergognano più di chiederlo. Ci sono uomini che imparano a vivere il sesso non più come conquista, ma come abbraccio. E coppie che, dopo decenni, si scoprono diverse. Più lente, più tenere, più vere. E anche chi si ritrova single, può vivere una nuova sensualità. Fuori dagli stereotipi. Fuori dal giudizio. Dentro un corpo che, anche se cambiato, ha ancora voglia di sentire. Parliamo tanto di educazione sessuale per i giovani. Ma nessuno educa gli adulti all’intimità matura. Nessuno dice loro che è normale avere desiderio anche dopo i 50. Che il piacere non si misura in numeri, ma in verità. Sesso e amore non invecchiano. Evolvono. E se vissuti con consapevolezza, diventano lo spazio più sacro dove rinascere. Dopo i 50, la sessualità può essere un luogo di libertà, un atto di potere, una danza nuova con se stessi e con l’altro. Perché amare a quest’età è un privilegio. È scegliere con il cuore, con il corpo, con l’anima. Il vero tabù non è fare l’amore a 50 anni. È smettere di crederci. Ma chi sceglie di riscoprire il piacere… non invecchia: rinasce.
Amiche o rivali? Le dinamiche nascoste nei rapporti femminili
Tra donne si crea un legame unico. Fatto di confidenze sussurrate, risate condivise, complicità silenziose. Ma, a volte, tra le pieghe di quell’affetto si insinuano anche ombre. Invidie sottili. Competizioni taciute. Gelosie travestite da battute leggere. È in questo spazio ambiguo che si muovono molte relazioni femminili: tra sorellanza autentica e rivalità nascosta. Un equilibrio delicato, spesso costruito su aspettative sociali, ferite personali e antichi modelli culturali. L’amicizia femminile può essere un porto sicuro. Un luogo dove sentirsi comprese, accolte, non giudicate. Una sorellanza che nasce dal vissuto condiviso: le pressioni, le fatiche, le battaglie quotidiane per essere viste, amate, rispettate. Quando due donne si sostengono davvero, si crea una forza potente, capace di guarire e far rinascere. Ma non sempre è così semplice. La competizione nascosta: quando la stima si tinge d’ombra. Viviamo in una società che spesso mette le donne una contro l’altra. Chi è più bella, più magra, più amata, più realizzata? Il patriarcato non ha solo imposto ruoli. Ha insinuato confronti. Così, anche tra amiche, può nascere quella tensione sottile: una promozione che l’altra non ha, una relazione che sembra perfetta, un successo che fa sentire inadeguate. E invece di condividere… si comincia a competere. In silenzio. Con il sorriso sulle labbra e il dubbio nel cuore. Micro-dinamiche di rivalità: come si manifestano • Battute “innocue” che colpiscono i punti deboli • Consigli non richiesti che suonano come critiche • Mancati festeggiamenti per i successi altrui • Allontanamenti improvvisi senza spiegazioni • Confronti silenziosi che minano l’autostima. Non è cattiveria. È insicurezza. È la difficoltà di amare davvero l’altra senza sentirsi meno. Quando l’invidia è uno specchio. L’invidia tra donne è ancora un tabù. Ma è un’emozione umana, che va riconosciuta e non negata. Perché spesso l’invidia non è altro che ammirazione che non si sa gestire. Un desiderio nascosto: “Vorrei essere come te.” Invece di negarla, possiamo usarla come specchio. Per capire cosa ci manca. Cosa vorremmo costruire in noi stesse. E trasformare la rivalità in ispirazione. La strada verso l’autenticità femminile Le relazioni femminili più belle sono quelle in cui ci si dice la verità. In cui ci si guarda con onestà, anche quando fa male. In cui ci si chiede scusa. E ci si celebra. Smettere di competere non significa smettere di crescere. Significa capire che non c’è bisogno di vincere tra donne. Perché se una brilla… non spegne le altre. Illumina. Conclusione: sorelle, non rivali Essere amiche, tra donne, è una scelta potente. È scegliere di costruire invece che confrontare. È imparare a gioire l’una dell’altra, a sostenersi nei momenti bui, a guardarsi senza filtri e senza maschere. Perché il vero femminile non divide. Accoglie. E quando una donna riconosce il valore dell’altra… iniziano a brillare entrambe.
Intervista a Luca Milesi – Regista e interprete di “Giovanni e Paolo”
Da dodici anni porta in scena con la Compagnia Enter uno spettacolo che non è solo teatro, ma memoria viva, impegno civile, emozione collettiva. “Giovanni e Paolo”, scritto da Alessandra Camassa con un prologo di Francesco Sotgiu, è un viaggio dentro l’anima di due uomini che hanno segnato per sempre la storia d’Italia: Falcone e Borsellino. A dirigere e interpretare questa potente opera è Luca Milesi, regista attento, attore sensibile, custode di una narrazione che ogni volta torna a interrogarci: cosa ne abbiamo fatto del loro sacrificio? Lo abbiamo incontrato per farci raccontare il cuore di questo progetto, le sue scelte artistiche, la sua visione del teatro come strumento di coscienza e resistenza. Cosa ti ha spinto a portare in scena, per ben dodici anni, la storia di Falcone e Borsellino? Prediligo da sempre il Teatro Storico e Civile, sono convinto che una delle missioni delle compagnie sia quella di offrire ai più giovani un supporto alla loro consapevolezza, alla loro conoscenza del mondo. La storia di Falcone e Borsellino raccontata con le parole di un magistrato – la Dott.ssa Alessandra Camassa – che ebbe l’opportunità di crescere come pubblico ministero a stretto contatto con lo stesso Borsellino, offre uno spaccato inedito sul rapporto umano solido eppure non privo di contrasti che esisteva fra i due magistrati uccisi nel 1992. E da ultimo, ma non certo per importanza, il fattore “regressione” è stato decisivo. Nel nostro paese la lotta alla criminalità organizzata dagli anni ’90 ad oggi non ha raggiunto i risultati che si potevano immaginare e sperare dopo le Stragi del ’92 e del ’93, la magistratura è spesso finita sotto attacco subendo processi mediatici che l’hanno delegittimata agli occhi dei cittadini. Quindi di rappresentazioni come questa ne servirebbero non una all’anno, ma una al mese e forse anche di più. In che modo è cambiato il tuo approccio registico nel corso delle varie edizioni dello spettacolo? Nel corso degli anni, con il contributo fondamentale di tutta la compagnia che lo porta in scena con me, ho limato la parte introduttiva che racconta l’infanzia e l’adolescenza dei due magistrati nella Palermo degli anni ’30 e di quelli di poco successivi alla fine della seconda guerra mondiale, gli anni della loro scelta “da quale parte stare”. Come hai scelto di rappresentare la dimensione “non terrena” in cui si ritrovano Giovanni e Paolo? Con l’estrema semplicità di uno spazio vuoto, illuminato da luci soffuse, con sole due sedie. Quali sono stati i momenti più complessi da dirigere o interpretare? Il testo di Alessandra Camassa lascia parlare un aspetto del rapporto fra Falcone e Borsellino per lo più nascosto, di cui pochi erano a conoscenza. Due grandissimi amici fermamente convinti delle loro idee, anche diverse, ma soprattutto dotati di caratteri molto, troppo forti, al punto di doversi talvolta allontanare l’uno dall’altro per non soffrire, per non scontrarsi. Ecco, questi angoli sono quelli che soprattutto dal punto di vista interpretativo nei primi anni di repliche hanno destato più domande. Poi con il tempo si cresce, come persone e come registi, quello che magari a lungo è sembrato un nodo irrisolvibile si allenta e si scioglie da solo con una semplice intuizione, favorita dalla metabolizzazionedalle esperienze di vita. Come hai lavorato con gli attori per restituire verità, rispetto e profondità ai personaggi? Quando inizio un lavoro di regia su un’opera nuova cerco subito un indirizzo che faccia capire agli spettatori, una volta aperto il sipario, per quale motivo ho scelto quel testo e non un altro. Da quello deriva un lavoro di ricerca sulle identità dei personaggi che in prima battuta conduco proponendo agli interpreti quella che è la mia idea; a quel punto inizia un lavoro nel quale diventanofondamentali la loro creatività e la loro fantasia. Il testo di Alessandra Camassa ha una forza emotiva potente: come hai integrato la regia per valorizzarlo senza sovrastarlo? Mi sono imposto di non aggiungere nulla che provenisse da personali convinzioni. La Dott.ssa Camassa ha conosciuto di persona entrambi i magistrati, quello che ci offre con il suo testo è il superamento di ogni retorica, l’aggiunta di qualcosa apparirebbe da subito posticcia. Diverso è il caso del prologo iniziale curato da un membro del nostro team. In quella prima mezz’ora noi raccontiamo chi erano Falcone e Borsellino da giovani, negli anni che precedettero il loro ingresso in magistratura. Nello spettacolo la loro attività di giudici non viene raccontata, il testo della Dotto.ssa Camassa li inquadra quando si trovano già nella Casa degli Uomini Onesti. Qual è per te la scena simbolo dello spettacolo? Se rispondessi a questa domanda svelerei un effetto a sorpresa, un jolly calato nel racconto dalla stessa autrice che ci aiuta a comprendere molte cose… Che tipo di responsabilità senti nel dare voce a due figure così centrali nella coscienza civile italiana? Ai miei tempi del Liceo, fra gli anni ’80 e ’90, si assisteva al sorgere dei primi negazionismi storici e, di conseguenza, alla nascita delle prime campagne dal titolo “Per Non Dimenticare”. All’epoca si trattava dell’Olocausto, dei campi di sterminio, qui si parla di altro, ma la personale partecipazione a quei movimenti giovanili che volevano conoscere e capire per tramandare mi ha segnato definitivamente. Se poi consideriamo l’Italia come una repubblica fondata non sul lavoro ma sul mistero, si può capire come sia necessario tramandare la memoria di chi è saltato in aria su un’autostrada o sotto casa della madre proprio perché alcuni di quei misteri li voleva svelare. Tanto più che al termine di alcune rappresentazioni nelle scuole mi è capitato di sentirmi domandare da alcuni alunni, tra l’atro rimasti entusiasti: – “Scusi regista, ma quei due che avete rappresentato sono esistiti veramente?”. Hai mai avuto il timore di risultare retorico nel trattare un tema così delicato? Il timore no, ma la consapevolezza, soprattutto negli istituti scolastici, di poter sembrare superfluo agli occhi di chi ama la scuola che si sofferma sul “come” e non sul “ peché ” delle cose, quello si. Si tratta però di un problema
Sessant’anni: l’età in cui si riscrive la vita
Non è l’inizio della fine. È l’inizio di un nuovo inizio. Sessant’anni. Una cifra che, per qualcuno, pesa come un macigno. Un traguardo che sa di tempo che corre, di giorni che si contano. Eppure, per chi sa guardare oltre i numeri, sessant’anni non sono una resa. Sono una rinascita. Maria soffiò sulle candeline del suo sessantesimo compleanno con una lacrima agli occhi. Non di tristezza. Non di nostalgia. Ma di gratitudine. Perché si accorgeva, finalmente, che sessant’anni non significavano invecchiare. Significavano vivere meglio. Cosa significa davvero avere sessant’anni Sessant’anni non sono più quelli dei nostri nonni. Sessant’anni oggi sono spesso un’età di piena vitalità, di nuove possibilità, di scelte consapevoli. È l’età in cui: • Si ha il coraggio di dire “no” senza sentirsi in colpa. • Si smette di rincorrere approvazione e si inizia a coltivare pace. • Si riscoprono passioni dimenticate, si viaggia, si ama con meno paura. • Si sceglie la qualità delle relazioni, non la quantità. • Si torna a sé stessi, con la maturità di chi ha vissuto e la libertà di chi non ha più tempo da sprecare. Sessant’anni sono l’età in cui si abbandona il superfluo e si abbraccia l’essenziale. I doni invisibili dei sessant’anni • Saggezza emotiva Hai capito che non tutto merita una battaglia. E che a volte, la vera forza è saper lasciare andare. • Forza interiore Sai cosa hai superato. Sai di cosa sei capace. E questo ti dà una sicurezza che nessuna giovinezza può insegnare. • Libertà autentica Non vivi più per dimostrare. Vivi per godere, per sentire, per essere. • Bellezza nuova Una bellezza che non ha più bisogno di filtri. Una bellezza che nasce dagli occhi, dai sorrisi veri, dal corpo che racconta una storia. Le sfide dell’età matura Sessant’anni portano anche le loro sfide: • Il corpo cambia e chiede più cura. • I ritmi rallentano e vanno rispettati. • Gli orizzonti si fanno più preziosi, e ogni scelta pesa di più. Ma ogni sfida porta con sé un’opportunità: quella di diventare pienamente protagonisti della propria esistenza. Di scegliere come invecchiare: non per sopravvivere, ma per fiorire. Sessant’anni sono… • Tempo di viaggi veri, dentro e fuori. • Tempo di amore maturo, che non pretende ma accoglie. • Tempo di passioni, che non si spengono, ma si trasformano. • Tempo di nuove prime volte, perché non si smette mai di scoprire. Maria, quella sera, capì che i suoi sessant’anni non erano un traguardo da temere. Erano una nuova pagina da scrivere. E la penna era tutta nelle sue mani. Conclusione: Sessant’anni non sono l’inizio della fine. Sono il principio di una libertà nuova, più piena, più luminosa. Sessant’anni sono il momento in cui scegli di essere, senza più bisogno di fingere. Sessant’anni sono la vita che finalmente ti appartiene.
La paura di invecchiare: il tempo che ci guarda negli occhi
Non temiamo le rughe. Temiamo il passare del tempo senza aver vissuto davvero. C’è un momento, spesso silenzioso, in cui ci guardiamo allo specchio e ci accorgiamo che qualcosa è cambiato. Una piega più marcata, uno sguardo un po’ più stanco, una ciocca bianca che prima non c’era. È un momento piccolo, quasi impercettibile. Eppure può aprire una crepa profonda nel cuore. La paura di invecchiare non è solo paura del corpo che cambia. È paura di perdere pezzi di sé. Paura di non essere più visti. Paura di non avere più tempo. Da dove nasce questa paura Viviamo in una società che esalta la giovinezza come unico ideale di valore. Siamo bombardati da immagini di perfezione eterna, da messaggi che associano il bello al giovane, il desiderabile al nuovo. E così, quando il nostro corpo comincia a cambiare, non vediamo più la bellezza della maturazione. Vediamo solo la perdita. La paura di invecchiare è anche paura del silenzio che verrà. Dei treni che pensiamo di aver perso. Delle occasioni che non torneranno. Dei sogni rimandati troppo a lungo. Non è il tempo a farci paura. È il rimpianto. È la sensazione di non aver vissuto abbastanza pienamente. I segnali invisibili della paura di invecchiare • L’ossessione per ogni nuovo segno sul viso • Il rifiuto di parlare del futuro • Il bisogno compulsivo di sembrare più giovani a tutti i costi • La nostalgia costante del passato E poi c’è quella tristezza sottile, che a volte ci attraversa senza motivo apparente. Come se qualcosa dentro sapesse che stiamo lottando contro un nemico invincibile: il tempo. Come affrontare la paura di invecchiare 1. Riconoscere la paura senza vergogna Non serve fingere coraggio. Ammettere di avere paura è il primo passo verso la libertà. 2. Cambiare lo sguardo Ogni ruga, ogni cambiamento racconta una storia. Non siamo pezzi di carne da valutare. Siamo vite piene da onorare. 3. Coltivare passioni, non solo immagini La vera giovinezza si nutre di sogni, di progetti, di emozioni. Non è il corpo che ci rende vivi. È il fuoco che custodiamo dentro. 4. Abbracciare il tempo come un alleato Il tempo non ci toglie valore. Ci rende più veri. Più profondi. Più capaci di amare senza condizioni. Una nuova visione del tempo Invecchiare non è un nemico da combattere. È un cammino da onorare. Significa aver amato, sofferto, sognato. Significa aver lasciato tracce. Significa aver vissuto. Ogni giorno che passa non ci allontana dalla vita. Ci avvicina alla sua verità più grande: che ciò che conta non è quanto tempo abbiamo. Ma come scegliamo di viverlo. Conclusione: Non temere di invecchiare. Temi di non aver danzato abbastanza nella tua vita. Temi di non aver detto ‘ti amo’ quando ne avevi la possibilità. Temi di non aver amato te stesso abbastanza forte. Perché il tempo passa, sì. Ma la bellezza di chi ha vissuto pienamente non sfiorisce mai.
La ginnastica facciale funziona? Pro, contro e possibilità dopo trattamenti estetici
Il viso racconta chi siamo. Ogni sorriso, ogni linea, ogni sguardo. E proprio come il corpo, anche il volto ha bisogno di attenzione, di cura, di movimento. Negli ultimi anni, sempre più persone si sono avvicinate al mondo della ginnastica facciale: una pratica naturale che promette di tonificare i muscoli del volto, migliorare l’elasticità della pelle e ridurre i segni dell’invecchiamento. Ma funziona davvero? E si può praticare anche se abbiamo fatto botox o trattamenti estetici? Facciamo chiarezza, con uno sguardo profondo e onesto. Cos’è la ginnastica facciale La ginnastica facciale è un insieme di esercizi mirati che coinvolgono i muscoli del viso, proprio come accade con l’allenamento per il corpo. Attraverso movimenti, contrazioni e distensioni consapevoli, si mira a: • Tonificare i muscoli sottostanti • Migliorare la circolazione sanguigna • Favorire la produzione di collagene ed elastina • Rendere la pelle più compatta e luminosa Il principio è semplice: un muscolo allenato sostiene meglio la pelle sovrastante, rallentando il rilassamento e l’insorgenza delle rughe. I benefici della ginnastica facciale 1. Rassodamento naturale Con costanza, la ginnastica facciale può migliorare il tono muscolare del volto, riducendo l’aspetto delle linee sottili e dei cedimenti. 2. Miglioramento della microcircolazione Gli esercizi aiutano ad aumentare l’afflusso di sangue e ossigeno alla pelle, rendendo il viso più luminoso e fresco. 3. Aumento della consapevolezza corporea Allenare il viso ci rende più consapevoli delle tensioni che accumuliamo (es. serramento della mascella, corrugamento delle sopracciglia) e ci aiuta a rilassarle. 4. Metodo naturale e non invasivo Non richiede aghi, bisturi, né sostanze chimiche: solo il nostro corpo e il nostro tempo. I limiti e i contro della ginnastica facciale 1. Non è un lifting I risultati sono più naturali e graduali. Non ci si può aspettare un effetto “tirato” come dopo un intervento chirurgico. 2. Richiede costanza Non basta praticare una volta ogni tanto. Per vedere benefici reali occorrono almeno 3-4 sessioni a settimana, per alcuni mesi. 3. Eccesso di allenamento può peggiorare Se si eseguono esercizi scorretti o con troppa forza, si rischia di accentuare linee di espressione indesiderate. 4. Non può agire su tutto La ginnastica migliora tono e elasticità, ma non elimina macchie, lassità cutanee profonde o rughe già marcate. E se ho fatto botox o altri trattamenti estetici? La ginnastica facciale è possibile anche dopo trattamenti estetici, ma con alcune accortezze: • Dopo il botox: È meglio aspettare almeno 2-3 settimane dopo l’iniezione prima di iniziare o riprendere la ginnastica facciale. Questo per evitare di interferire con il posizionamento del botox, che ha bisogno di stabilizzarsi nei muscoli. • Dopo filler dermici (es. acido ialuronico): Anche qui, attendere almeno 2 settimane. Movimenti troppo intensi subito dopo potrebbero spostare leggermente il filler. • Dopo lifting o interventi chirurgici: Occorre l’ok del chirurgo estetico. La ginnastica può essere utile per il recupero, ma deve essere adattata e molto delicata. In generale: • Sempre scegliere esercizi delicati, senza forzare. • Privilegiare movimenti di rilassamento, respiro e stimolazione della circolazione nei primi mesi. • Consultare il proprio medico estetico se si hanno dubbi. Conclusione Il viso è la casa della nostra storia. Trattarlo con rispetto significa accettarne la bellezza, il cambiamento, la vita. La ginnastica facciale può essere una straordinaria alleata: • Naturale • Accessibile • Profonda Ma, come ogni percorso di cura, richiede pazienza, consapevolezza e un amore gentile verso sé stessi. Perché non si tratta solo di “apparire più giovani”. Si tratta di sentirsi vivi, presenti, luminosi. Dentro e fuori.
ROLLBACK – Il coraggio di tornare indietro per andare avanti
Portare un romanzo in scena è sempre un atto di trasformazione, ma anche di profonda risonanza emotiva. Quando Francesco Nannarelli ha letto il libro di Maurizio Carletti, qualcosa lo ha colpito immediatamente: non solo la forza narrativa, ma quella verità fragile e disarmante che il protagonista, Sergio Serpieri, incarna nel suo viaggio tra maschere, memoria e redenzione. È da questa intuizione che nasce “ROLLBACK – Nessuna notte è infinita”, uno spettacolo che mescola ironia e malinconia, realtà e possibilità, e che attraverso una regia delicata e potente accompagna lo spettatore nel cuore di una notte esistenziale da cui, forse, è ancora possibile tornare. In questa intervista, Francesco Nannarelli ci racconta il dietro le quinte di questa operazione teatrale: le sfide dell’adattamento, l’empatia con i personaggi, il lavoro con il cast e il significato profondo di quel “rollback” che parla un po’ a tutti noi. Francesco, cosa ti ha colpito di più del romanzo di Maurizio Carletti al punto da volerlo portare in scena? Mi ha colpito la delicatezza con cui Maurizio racconta la fragilità umana senza mai giudicarla. C’è una verità emotiva nel personaggio di Sergio che mi ha preso immediatamente. Il romanzo non ha una struttura teatrale naturale, ma l’adattamento, fatto di dialoghi autentici e situazioni che oscillano tra il comico e il drammatico, lo ha reso perfetto per il palcoscenico. Il titolo “ROLLBACK – Nessuna notte è infinita” è evocativo e poetico: cosa rappresenta per te questa “notte” e cosa significa “rollback” nel viaggio di Sergio? La “notte” è la metafora dell’oblio, dell’apatia, della perdita di sé. Il “rollback”, che è un termine tecnico dell’informatica, diventa qui un ritorno alle origini, alla verità. È come se Sergio avesse bisogno di fare un “reset selettivo”, tornando indietro per ritrovare ciò che per lui conta davvero. La notte è il buio dell’incertezza, della paura e del tempo che sembra sfuggire. Il “rollback” è il ritorno, il riscrivere la propria storia trovando nuovi significati. Hai scelto anche di interpretare Sergio Serpieri: cosa ti ha spinto a indossare i suoi panni e quanto è stato difficile entrare nella sua doppia vita? Sergio mi somiglia moltissimo, più di quanto vorrei ammettere. È un uomo che ha indossato molte maschere e, come tanti, ha confuso il successo con la felicità, diviso tra ciò che era prima e ciò che aveva deciso di essere poi. Entrare nella sua vita è stato un atto di empatia, ma anche di coraggio: ho dovuto scavare a fondo nelle sue contraddizioni. Sergio è un uomo che riscopre il senso del tempo e dell’autenticità. Come hai voluto raccontare questo cambiamento sul palco, attraverso regia e corpo? Il cambiamento di Sergio è graduale, fatto di silenzi che si allungano, sguardi che si fanno più presenti, gesti che rallentano. Nella regia ho voluto che il ritmo scenico seguisse questa trasformazione, passando da una narrazione più frenetica a una più contemplativa. La regia alterna momenti comici, drammatici, romantici. Come hai bilanciato questi registri senza snaturare il senso profondo della storia? La chiave è stata l’ascolto: ogni scena ha la sua verità e il suo tono, ma tutto parte dalla sincerità degli attori. Non abbiamo mai forzato una risata o una lacrima, anche se spesso ci usciva per davvero. Il segreto è stato non avere paura delle emozioni, perché così è anche nella vita. Il quartiere del Gazometro diventa quasi un personaggio della storia. Come lo hai reso vivo e pulsante sulla scena teatrale? In realtà non è proprio un “personaggio” della storia, è piuttosto un punto di ritorno e di arrivo. E’ come ritornare in famiglia, la famiglia di origine. D’altronde un piccolo quartiere è come un piccolo paese: ci si conosce un po’ tutti e si stringono facilmente rapporti di simpatia con tanti piccoli artigiani e negozianti. Gran parte dello spettacolo poi si svolge al bar Ardenzi o, senza scendere nei dettagli per non spoilerare troppo, in una casa lì vicino. Lucilla Ardenzi è un personaggio centrale, affascinante e complesso. Com’è stato costruire il suo rapporto con Sergio e con il pubblico? Lucilla è il “contrappunto emotivo” di Sergio. Con l’attrice Catia Pini, abbiamo lavorato sulla dinamica del rapporto tra Lucilla e Sergio, che è fatta di chiaroscuri, lasciando spazio a silenzi significativi e a momenti di pura sincerità; sul non detto, sugli sguardi, sulle pause e sulle emozioni. Lucilla si mostra con schiettezza e sincerità; condivide con il pubblico le sue debolezze, le sue insicurezze ed anche la sua tenerezza, e lo conduce per mano cercando di coinvolgerlo in una sorta di danza emotiva. Il cast è numeroso e variegato. Come hai lavorato con gli attori per creare un clima corale e autentico, soprattutto nelle scene di “vita di quartiere”? Devo ringraziare tutto il cast, perché ha “sposato” il progetto, anche chi ha pochissime battute, e si è completamente affidato alla mia regia. Insieme abbiamo fatto un gran lavoro sullo studio dei personaggi, creando un passato fittizio, il famoso background , da portare poi nell’interpretazione del personaggio stesso. Ho chiesto agli attori di mettere qualcosa di loro nei personaggi per renderli più veri possibile. La vita di quartiere la si vede nei ricordi, nei racconti o nelle belle chiacchierate al bar Ardenzi. Il bar di quartiere, appunto. Le musiche originali di Marco Taggiasco accompagnano la pièce. Che ruolo ha la musica nel racconto emotivo di ROLLBACK? La musica è una componente essenziale nei miei spettacoli, definisce l’emozione in un modo in cui, a volte, neppure l’immagine riesce. Perfino gli stessi attori hanno un coinvolgimento più profondo quando in scena c’è il commento sonoro. Con Marco c’è una collaborazione che dura da oltre 30 anni, con lui abbiamo sperimentato tecniche quasi cinematografiche per l’inserimento della musica e devo dire che i risultati sono sorprendenti, la sua musica è meravigliosa. Lo spettacolo tocca temi profondi come la malattia, il tempo che resta, l’identità. Come hai evitato il rischio della retorica o del patetismo? Con il pudore. Non abbiamo mai calcato la mano. La forza della scrittura è che non chiede compassione, ma
Il farmaco per perdere peso – pro, contro ed effetti collaterali
A volte il corpo racconta battaglie silenziose. A volte il peso che portiamo non si vede solo sulla bilancia, ma sulle spalle, nel cuore, nella stanchezza di ogni giorno. Perdere peso non è solo una questione estetica. È, spesso, una questione di vita. Negli ultimi anni, un nome ha cominciato a farsi largo tra chi combatte contro l’obesità e il sovrappeso: Wegovy. Un farmaco innovativo, promesso come un alleato potente per chi desidera dimagrire e ritrovare salute. Ma come ogni strumento potente, anche Wegovy porta con sé luci e ombre. Capire quali sia importante per compiere scelte consapevoli. Cos’è Wegovy? Wegovy è un farmaco a base di semaglutide, una molecola che imita l’azione di un ormone naturale (GLP-1) che regola l’appetito. In parole semplici: Wegovy aiuta a sentirsi sazi prima e a mangiare di meno. È approvato per l’uso nei soggetti adulti con obesità o sovrappeso associato a condizioni come diabete di tipo 2, ipertensione, apnea notturna. Viene somministrato una volta a settimana tramite iniezione sottocutanea. I benefici di Wegovy 1. Perdita di peso significativa Gli studi clinici mostrano una perdita di peso media del 15-20% del peso corporeo iniziale dopo circa 68 settimane di trattamento. Un risultato molto superiore rispetto a molti altri farmaci o diete tradizionali. 2. Miglioramento delle condizioni di salute Oltre al dimagrimento, Wegovy può migliorare: • Pressione arteriosa • Livelli di glicemia • Colesterolo • Qualità del sonno 3. Impatto positivo sulla qualità di vita Molti pazienti riferiscono un miglioramento dell’autostima, della mobilità fisica, dell’energia mentale. Gli effetti collaterali di Wegovy Come ogni farmaco, Wegovy può causare effetti indesiderati. I più comuni sono: • Nausea (molto frequente all’inizio del trattamento) • Vomito • Diarrea o costipazione • Mal di testa • Affaticamento In rari casi, Wegovy può provocare problemi più seri, come: • Infiammazione del pancreas (pancreatite) • Calcoli biliari • Problemi renali Per questo motivo, è fondamentale che l’uso di Wegovy sia prescritto e monitorato da un medico, all’interno di un percorso di cura globale. Pro e contro di Wegovy Pro Contro Perdita di peso significativa Effetti collaterali gastrointestinali Miglioramento di patologie associate Costo elevato (non sempre coperto dalle assicurazioni) Miglioramento della qualità di vita Necessità di iniezioni settimanali Senso di sazietà prolungato Rischio di riprendere peso alla sospensione L’importanza di perdere peso per la salute Perdere peso non è solo una questione estetica. Significa ridurre il rischio di: • Diabete di tipo 2 • Malattie cardiovascolari • Ictus • Apnea notturna • Alcuni tipi di cancro Significa camminare senza fiatone. Significa ridere senza vergogna. Significa vivere più a lungo, ma anche vivere meglio. La salute parte anche da lì: dal prendersi cura del proprio corpo, con amore e responsabilità. I risultati a breve e a lungo termine A breve termine, Wegovy può portare a una rapida perdita di peso nelle prime settimane, specialmente se associato a uno stile di vita sano. A lungo termine, i risultati dipendono da: • La continuità del trattamento • L’adozione di abitudini alimentari ed emotive più sane • L’approccio globale alla cura di sé È importante sapere che sospendere Wegovy senza modificare lo stile di vita porta spesso a riprendere parte del peso perso. Per questo il farmaco va visto non come una bacchetta magica, ma come un alleato temporaneo all’interno di un percorso più ampio di cambiamento. Conclusione: Wegovy è uno strumento. Il vero viaggio è il cambiamento interiore che accompagna ogni chilo lasciato andare. Perché non si tratta solo di perdere peso. Si tratta di ritrovare sé stessi, un respiro alla volta.
Urbex – Quando la bellezza abbandonata diventa una trappola mortale
Storie di sogni spezzati, fotografie mai sviluppate e silenzi che inghiottono vite Era un giorno di primavera. Il sole filtrava tra le foglie di un parco dimenticato, accarezzando i muri scrostati di un manicomio abbandonato. Luca, ventitré anni, appassionato di fotografia e silenzi, si era avventurato lì da solo, con uno zaino leggero, una torcia e la sua reflex. Quella mattina aveva scritto sul suo profilo: “Il bello si nasconde dove non guardiamo mai.” E aveva varcato la soglia. Non sarebbe mai più uscito. Il fascino del proibito L’esplorazione urbana – Urbex, per chi la pratica – è un fenomeno in crescita. Unisce lo spirito dell’avventura, la passione per la storia, il gusto per la fotografia decadente. Ex ospedali, fabbriche dismesse, villaggi fantasma, bunker, scuole invase dalla vegetazione. Luoghi dimenticati dal tempo, che custodiscono brandelli di memoria e mistero. Per molti, l’Urbex è una fuga dal rumore del presente. Un modo per “sentire” i muri parlare. Ma la linea tra meraviglia e tragedia è sottile come il legno marcio di un solaio. Carlotta Celleno non è l’unica. C’è stata Maya, 19 anni, precipitata nel vuoto da un tetto industriale per un’inquadratura al tramonto. Jérôme, 26, fotografo francese, rimasto senza ossigeno in un tunnel sotterraneo e ritrovato giorni dopo. Tutti sapevano. Ma non abbastanza. Perché l’Urbex non fa rumore. Non urla. È una lama silenziosa. Una porta che si richiude alle spalle e, se non stai attento, non si riapre più. L’illusione dell’immortalità digitale I social hanno amplificato la portata dell’Urbex. Su Instagram e TikTok proliferano scatti mozzafiato: scale sospese nel vuoto, stanze con letti ancora disfatti, luci soffuse filtrate da vetrate rotte. Tutto sembra poesia. Ma dietro ogni “like” può nascondersi un’infezione da amianto, una caduta, un arresto. E spesso, dietro la fotocamera, una persona che voleva solo sentirsi viva. Il corpo dimenticato nella bellezza Quello che molti non dicono è che si può morire di Urbex. Si muore di crolli, di silenzi, di incoscienza, di solitudine. Si muore inseguendo la bellezza in luoghi dove la morte è rimasta a vegliare. Luoghi che raccontano dolori passati e che, se non rispettati, reclamano anche i presenti. “Non toccare nulla. Non portare via nulla. Non lasciare traccia.” È la regola d’oro dell’Urbex. Ma c’è un’altra regola, non scritta: non lasciare indietro te stesso. Non farti dimenticare da un muro. Non diventare parte del silenzio che volevi solo fotografare. Serve rispetto. Serve consapevolezza. Serve una guida. L’Urbex può essere potente, poetico, perfino terapeutico. Ma va fatto con preparazione, in gruppo, con protezioni, con mappe, con buonsenso. Non è un gioco. Non è una corsa al brivido. È un viaggio tra le rovine della memoria umana. E ogni rovina merita rispetto. Anche tu. Dedicato a chi è entrato, ma non è mai uscito. E a chi entra per raccontare, non per scomparire.
L’importanza dello yoga: il respiro che ti riporta a casa
A volte, non serve andare lontano per ritrovarsi. Basta fermarsi. Basta respirare. Basta lasciarsi attraversare dal silenzio. Francesca entrò nella sala yoga quasi per caso. Una giornata troppo piena, una mente troppo affollata, un cuore troppo stanco. Cercava qualcosa, senza sapere esattamente cosa. La stanza profumava di incenso e legno. C’era una luce morbida, un senso di sospensione, come se il tempo avesse rallentato il suo passo. E fu lì, sul tappetino, con i piedi nudi a toccare la terra e il respiro che finalmente trovava spazio, che Francesca capì: il vero viaggio non era mai stato fuori. Era sempre stato dentro di lei. E lo yoga era la chiave per entrarvi. Perché lo yoga è importante Lo yoga non è solo una pratica fisica. Non è solo flessibilità, forza o equilibrio. Lo yoga è un ritorno. Un ritorno a se stessi, al corpo che troppo spesso dimentichiamo, al respiro che ignoriamo, al presente che scivola via tra mille pensieri. Lo yoga è il luogo in cui corpo, mente e spirito si incontrano e si ascoltano. È il momento in cui smettiamo di rincorrere e iniziamo, finalmente, ad essere. Lo yoga guarisce In un mondo che ci vuole sempre veloci, performanti, connessi, lo yoga ci insegna l’arte della lentezza. Ci insegna a stare. A sentire. A rispettare i nostri limiti senza giudicarli. • Cura l’ansia perché ci riporta nel qui e ora. • Cura il corpo perché lo allunga, lo rafforza, lo risveglia. • Cura l’anima perché ci riconnette alla parte più profonda e silenziosa di noi stessi. Nello yoga impariamo che ogni respiro è un dono. Che ogni tensione può sciogliersi. Che ogni battito ha il diritto di essere ascoltato. Lo yoga come filosofia di vita Con il tempo, Francesca scoprì che lo yoga non finisce quando si arrotola il tappetino. Lo yoga diventa uno sguardo diverso sulla vita. • È il respiro che ci salva nei momenti difficili. • È la pazienza che coltiviamo quando qualcosa non va come vorremmo. • È l’accettazione delle imperfezioni, nostre e degli altri. • È il rispetto per il nostro ritmo, il nostro cammino, il nostro essere. Lo yoga non cambia il mondo fuori. Cambia il nostro modo di starci dentro. Un rifugio sempre accessibile Non importa dove siamo. Non importa quanto siamo stanchi, delusi, arrabbiati. Lo yoga è sempre lì, come un rifugio. Basta chiudere gli occhi. Basta ascoltare il respiro. Basta tornare a casa, dentro di noi. Perché il tappetino non è solo un luogo fisico. È un luogo dell’anima. Conclusione: Lo yoga è l’arte di incontrarsi. Non dove pensiamo di dover arrivare. Ma dove siamo davvero.