Ci sono amiche con cui condividi lo shopping, i segreti amorosi, i sabati sera sul divano. E poi c’è Kate, la mia amica avvocatessa divorzista, che condivide con me anche dettagli piccanti dei procedimenti legali più assurdi del Kent. Una donna affilata, elegante, cinica quanto basta… e capace di trasformare anche la rottura di un matrimonio in un racconto da stand-up comedy. Kate è l’unica persona che riesce a parlare di alimenti e affidamento con la stessa passione con cui altri parlano di cioccolato fondente. Mentre io ho crisi esistenziali per aver ricevuto un messaggio visualizzato e ignorato, lei discute serenamente di patrimoni da spartire, liti per i bonsai e custodie condivise… dei canarini. Il suo motto è: “L’amore è eterno finché non arriva l’atto di separazione”. E lo dice con una tale classe che sembra una poesia. Ha la battuta pronta, lo sguardo da sfinge e una collezione di tailleur che fanno sembrare ogni cliente un caso già vinto. Una volta, durante una cena, ci ha raccontato il caso del “Divorzio dell’annaffiatoio”. Marito e moglie avevano litigato ferocemente per la custodia di un vecchio annaffiatoio di latta con valore affettivo (a quanto pare apparteneva alla nonna di lui, ma lei lo usava per il basilico). La cosa è finita in aula. Risultato? Annaffiatoio diviso equamente: un mese ciascuno. Kate, in quella causa, ha superato se stessa. “Ho fatto più per la botanica che per la giurisprudenza”, ci ha detto sorseggiando prosecco. Poi c’è stato il “Divorzio del cane influencer”. La coppia aveva un bulldog francese con un profilo Instagram da migliaia di follower. Nessuno voleva rinunciare ai diritti d’immagine del povero animale. Kate ha proposto la gestione congiunta degli account social, con calendario editoriale incluso. Io ho riso per mezz’ora. “Pippa, l’amore finisce, ma i like restano”, mi ha detto con filosofia. E chi può dimenticare il caso della “Vendetta del barbecue”? Lui l’aveva portato via con sé dopo la separazione. Lei, in segno di protesta, ha scritto su tutti i gruppi social del villaggio: “ATTENZIONE: uomo con griglia altrui, non fidatevi!”. Kate è intervenuta con una diffida legale e una risata epica: “Pippa, siamo passati dal diritto di famiglia al diritto alla brace”. Il bello di Kate è che riesce a mantenere il sangue freddo anche quando i clienti sono più drammatici di una soap opera. Una volta una cliente ha pianto per tre ore raccontando che il marito aveva osato buttare via il loro “cuscino della felicità con ricamo tibetano”. Kate ha preso appunti e poi ha detto: “Signora, ricuciamo la felicità… ma su un altro cuscino”. Eppure, sotto quella corazza di sarcasmo e codici civili, Kate è una romantica nascosta. Ogni tanto, quando abbiamo bevuto un bicchiere di troppo, confessa: “Sai, Pippa… io continuo a credere nell’amore. Anche se ho visto la sua autopsia troppe volte.” E lì mi si scioglie il cuore. Kate mi ha insegnato che anche nei momenti peggiori, l’ironia può salvare. Che non serve sempre piangere per le rotture: a volte basta riderci sopra, firmare un paio di carte… e rifarsi la vita con una nuova pianta e un buon gin tonic. E se proprio va male… ci sarà sempre una nuova causa da raccontare. Con tanto di sentenza e risata finale.
Le invasioni dell’oca Geraldine – Cronache ornitologiche drammatiche
Se pensavi che i veri pericoli in un villaggio infestato fossero i fantasmi, ti sbagliavi. Il vero terrore a Pluckley ha piume bianche, occhi da psicopatica e un becco affilato come la lingua della signora Higgins: si chiama Geraldine ed è un’oca. Non una semplice oca da cortile, eh no. Geraldine è un’entità. Una forza della natura. Un tornado su due zampe palmate con l’anima di un generale napoleonico e l’umore di una diva in menopausa. E, per motivi ancora ignoti alla scienza, ha deciso che io… sono il suo bersaglio preferito. Tutto è iniziato un innocente martedì mattina. Ero uscita per fare una passeggiata rilassante, cuffiette alle orecchie, aria fresca, spirito sereno. Poi, l’inferno: da dietro il cespuglio del signor Bloom è sbucata lei, Geraldine, con lo sguardo assassino e il passo deciso. Ha emesso un verso che sembrava un avvertimento mafioso e si è lanciata contro di me. Ho cercato di reagire con dignità. Ho provato a farle capire che ero una brava persona, amante degli animali, persino vegetariana part-time. Ma Geraldine non ha ascoltato. Ha iniziato a inseguirmi beccando le caviglie, le borse, il mio povero trench beige (RIP). Sembrava posseduta. Io correvo. Lei correva più forte. Era come una scena di Jurassic Park, ma con più piume e meno effetti speciali. La cosa peggiore? Mi ha beccata. Non solo in senso metaforico: proprio fisicamente. Una beccata precisa sul polpaccio sinistro. Gavin sostiene che il livido sembrava la mappa della Scozia. Kate ha riso così tanto che ha dovuto sedersi per riprendersi. Da quel giorno, ogni mio spostamento è diventato un’operazione militare. Prima di uscire, controllo che Geraldine non sia nei paraggi. Uso il bidone dell’organico come scudo. Ho perfino comprato uno spray anti-oca (che in realtà è solo acqua con oli essenziali, ma mi dà l’illusione del controllo). Una volta ho tentato una riconciliazione. Ho portato a Geraldine una ciotola di chicchi biologici, convinta che il cibo potesse placare il suo spirito vendicativo. Lei mi ha guardato, ha capovolto la ciotola e mi ha defecato davanti alle scarpe. Messaggio ricevuto. Rachel dice che Geraldine è solo in cerca di attenzioni. Vivian, invece, è convinta che sia la reincarnazione della sua prozia Beatrice, famosa per il suo caratteraccio e le sue vendette plateali. Personalmente, credo che sia solo un’oca con un ego smisurato e un certo gusto per il dramma. Ora Geraldine è diventata una celebrità locale. La gente viene da altri villaggi per vederla. Alcuni la fotografano. Altri la temono. Io la evito. Ma sotto sotto, devo ammetterlo… mi manca quando non la vedo. Forse perché la sua follia è così perfettamente integrata nella mia vita, da sembrare ormai una compagna di avventure. E poi, ammettiamolo: se la tua esistenza è minacciata da un’oca megalomane, vuol dire che stai vivendo qualcosa di veramente unico. Tragico, certo. Ma irrimediabilmente esilarante.
Stanchezza emotiva: non sei pigro, sei saturo
Ti capita di sentirti svuotatə, anche dopo aver dormito bene? Di non avere energie, motivazione, voglia di parlare… anche se tecnicamente “non hai fatto nulla”? No, non sei pigro. Probabilmente sei emotivamente esausto. E la stanchezza emotiva è qualcosa che non si cura con una notte di sonno. È una saturazione invisibile. E va ascoltata, non ignorata. Cos’è la stanchezza emotiva? È quel tipo di affaticamento che non riguarda il corpo, ma la mente e il cuore. Nasce da troppe richieste, troppi stimoli, troppe emozioni da gestire senza mai scaricarle. Spesso colpisce chi si prende cura degli altri. Chi “tiene tutto sotto controllo”. Chi non si permette di crollare. I sintomi? – Svogliatezza – Irritabilità – Distacco affettivo – Sensazione di “non sentirsi più se stessi” Viviamo in un mondo dove siamo sempre raggiungibili, sempre attivə, sempre “on demand”. Il lavoro, le relazioni, i social: tutto ci chiede presenza, energia, disponibilità. E così, anche se stiamo fermi… dentro siamo in iperattività emotiva. L’ansia di rispondere. Di fare bene. Di non deludere. E intanto il nostro serbatoio si svuota. Senza che nessuno se ne accorga. Se sei una persona empatica, sei particolarmente espostə. Perché assorbi il malessere altrui. Perché ascolti, capisci, ti immedesimi. E spesso ti dimentichi di te. La stanchezza emotiva arriva quando diamo troppo, troppo a lungo, senza ricevere nutrimento emotivo in cambio. E a un certo punto… scatta il cortocircuito: non riesci più a sentire nulla. Come se il tuo cuore si mettesse in modalità silenziosa. Come si cura? 1. Ascoltati davvero. Non ignorare i segnali. Se non hai voglia, se ti senti spentə… va bene così. 2. Datti il permesso di non esserci. Non devi essere sempre produttivə, disponibile, brillante. 3. Ritagliati spazi “vuoti”. Dove non fai nulla. Dove puoi solo esistere, respirare, riposare. 4. Nutriti emotivamente. Fai cose che ti piacciono, che ti scaldano. Circondati di persone che ti fanno sentire leggerə. 5. Parlane. La stanchezza emotiva ha bisogno di essere nominata, riconosciuta, condivisa. La verità che consola. Non sei pigro. Non sei sbagliatə. Se ti senti esaurito emotivamente, è perché hai dato tanto. E ora è tempo di ricevere, respirare, riprenderti. Perché anche le persone forti si stancano. E non c’è nulla di più umano che concedersi una pausa.
La criminologa e il mostro: storie vere di chi studia il male da vicino
Dentro la mente criminale con chi sceglie ogni giorno di non voltarsi dall’altra parte. Chi ha il coraggio di guardare il buio Mentre il mondo si scandalizza, cambia canale o scorre via, c’è chi resta. Chi osserva il crimine non con morbosa curiosità, ma con lucidità e rigore. Chi si siede accanto al male, lo studia, lo interroga. Chi trasforma l’orrore in competenza. Sono le criminologhe. I profiler. Gli esperti di comportamento deviante. Professionisti che ogni giorno sfidano l’abisso. Non per passione del macabro. Ma per cercare di capire, prevenire, raccontare. Il primo incontro con il male Molti raccontano che il primo vero contatto con il crimine lascia un segno indelebile. Un interrogatorio. Una perizia psichiatrica. Uno sguardo gelido da parte di un assassino. Un racconto dettagliato, crudele, privo di rimorso. “Quando ho sentito quel killer parlare della sua vittima come di un oggetto… ho capito che l’empatia può davvero spegnersi”, racconta una criminologa forense. Ma il lavoro non è solo emozione. È studio, freddezza, distacco controllato. Perché lasciarsi coinvolgere troppo… è un rischio. Interrogare la mente, non solo il delitto Il lavoro del criminologo non è risolvere i casi. È capire perché è successo. Cosa ha spinto quella persona ad agire. Cosa c’era prima del crimine. Infanzia, traumi, devianze. Modelli distorti, compulsioni, segnali ignorati. Non si tratta di giustificare. Ma di ricostruire una logica dentro l’illogico. Le donne dietro la scrivania Molte delle figure più autorevoli della criminologia oggi sono donne. E poi ci sono decine di esperte meno conosciute che operano nel silenzio di carceri, aule di tribunale, consulenze per famiglie e vittime. Sono donne che non hanno paura del male, ma ne studiano il linguaggio. E spesso devono difendersi non solo dal criminale, ma anche dallo scetticismo dell’ambiente. Uscire vivi dal labirinto Chi lavora nel mondo del crimine porta addosso un peso invisibile. Le immagini, le storie, le parole restano nella mente. Serve forza. Serve equilibrio. Serve qualcuno che, a fine giornata, ti riporti alla realtà. Molti criminologi sviluppano strategie per “disintossicarsi” dalla violenza quotidiana. Altri si rifugiano nella scrittura. O nel silenzio. Perché chi studia il male, se non si protegge… rischia di farsi male davvero. Il mestiere di chi non dimentica I criminologi non sono detective. Non sono supereroi. Sono persone che hanno scelto di ascoltare il dolore, analizzarlo, trasformarlo in sapere.Grazie a loro, possiamo dare un nome al mostro. E forse, anche evitarlo.
Il bisogno di avere sempre ragione: controllo o insicurezza?
Hai mai conosciuto qualcuno che non riesce proprio a dire “hai ragione tu”? Oppure sei tu, quella persona, che in una discussione si incaponisce… anche quando in fondo sa che non serve? A volte sembriamo lottare per un argomento, ma in realtà stiamo difendendo qualcosa di più profondo: il nostro valore, il nostro ruolo, la nostra identità. Ma allora, il bisogno di avere sempre ragione… è una forma di controllo o un segnale di insicurezza? Voler avere sempre ragione può sembrare un segno di forza, ma spesso è una maschera di fragilità. Dietro quel bisogno c’è una paura: – di non essere considerati – di non essere ascoltati – di perdere valore E così, difendiamo le nostre idee come se fossero una questione di sopravvivenza emotiva. Perché se perdo una discussione, allora non valgo abbastanza. Ma è davvero così? Molte persone crescono con un’idea inconscia: “Se ho torto, sbaglio. E se sbaglio, non sono degno d’amore.” Così, anche da adulti, cerchiamo di avere sempre ragione per non cadere in quel buco nero del giudizio. La mente si difende. E si aggrappa. Ma quanto ci costa questo meccanismo? Relazioni tese, dialoghi impossibili, solitudine comunicativa. E soprattutto… non impariamo mai davvero dagli altri. C’è anche un’altra faccia del bisogno di avere ragione: il controllo. Chi ha paura dell’imprevisto, del caos, del cambiamento… tende a voler controllare anche il pensiero altrui. “Se la mia idea prevale, allora tutto è sotto controllo.” Ma è un’illusione. Perché il vero controllo non nasce dal dominio, ma dalla sicurezza interiore. La svolta arriva quando capiamo che non c’è nulla da perdere nel riconoscere che l’altro ha ragione. Anzi: c’è tutto da guadagnare. Relazioni più sane, dialoghi più veri, crescita reciproca. Dire: “Hai ragione” non è sottomissione. È maturità. È fiducia. È la libertà di non dover sempre “vincere”, perché ci si sente già abbastanza. La prossima volta che ti accorgi di voler avere ragione a tutti i costi, fermati e chiediti: – Di cosa ho paura? – Cosa sto difendendo davvero? E poi prova, anche solo una volta, a cedere. Non per perdere. Ma per creare spazio. Spazio di relazione, di ascolto, di verità. Perché le persone più forti non sono quelle che parlano di più… ma quelle che sanno ascoltare anche quando fa male.
Criminologo o criminalista? Due mestieri, un solo obiettivo: capire il male
Quando il crimine ha bisogno di essere capito… e risolto Una scena del crimine. Un cadavere. Una verità nascosta tra sangue, silenzi e indizi. Chi entra in gioco? Il criminologo o il criminalista? Spesso confusi, questi due ruoli operano fianco a fianco, ma con funzioni, strumenti e obiettivi diversi. Uno studia la mente. L’altro studia la scena. Entrambi cercano la verità. Il criminologo: dentro la mente del colpevole Il criminologo è colui che analizza il comportamento deviante, la psicologia, le dinamiche sociali e personali che portano a commettere un crimine. Non risolve il caso come in una serie TV, ma cerca di rispondere a una domanda più profonda: “Perché lo ha fatto?” Studia il profilo del killer, la sua infanzia, i traumi, il contesto familiare e sociale. Può lavorare con forze dell’ordine, tribunali, carceri o in ambito accademico. A volte collabora con le vittime. Altre con gli aggressori. Non giudica: osserva, analizza, traduce il male. Il criminalista: la scienza sulla scena del crimine Il criminalista, invece, è l’investigatore tecnico-scientifico. Non si occupa di “perché”, ma di “come”. Lavora sulla scena del crimine, raccoglie prove, analizza il DNA, studia le traiettorie di sangue, le impronte, i residui di polvere da sparo. È un professionista della prova oggettiva. Fisica. Visibile. Usa microscopi, reagenti chimici, tecnologie avanzate. Spesso lavora nei RIS, nella polizia scientifica o nei laboratori forensi. Se il criminologo entra nella mente del killer, il criminalista entra nel dettaglio della sua azione. Due approcci complementari Non c’è rivalità. C’è sinergia. Criminologo e criminalista si completano. Un omicidio passionale può avere una scena pulita. Ma dietro ci sono mesi di soprusi, segnali psicologici, escalation emotive: qui entra in gioco il criminologo. Un delitto d’impulso può lasciare tracce invisibili: impronte sul manico, fibre sotto le unghie, gocce sul pavimento. Il criminalista le trova, le isola, le collega. L’uno racconta la storia. L’altro la dimostra. Il fascino del mestiere (e i suoi pericoli) Entrambi affrontano l’orrore reale. Non quello da copione. Parlano con assassini. Stanno ore su immagini crude. Analizzano ciò che gli altri non vogliono vedere. Eppure, lo fanno per lo stesso motivo: capire il male, per prevenirlo. Ricostruire il crimine, per dare giustizia. Due nomi, una missione:Criminologo e criminalista. Due titoli. Due sguardi. Ma una sola verità da raggiungere: quella nascosta nel sangue, nel silenzio, nella mente.
Sebastiano Visintin, indagato per l’omicidio di Liliana Resinovich, si rifugia in Austria
Mentre l’inchiesta sulla morte di Liliana Resinovich prende una nuova piega, con l’iscrizione del marito Sebastiano Visintin nel registro degli indagati per omicidio, l’uomo si trova lontano da Trieste. Ha scelto la Carinzia, una regione tranquilla e silenziosa del Sud Austria, come luogo di “riposo e ristoro”. Un momento che definisce necessario per la sua salute, ma che inevitabilmente si scontra con lo sguardo pubblico e mediatico che da mesi – se non da anni – cerca una verità nel caso Resinovich, una delle vicende più controverse e dolorose degli ultimi tempi. Liliana Resinovich è scomparsa il 14 dicembre 2021. Il suo corpo verrà ritrovato il 5 gennaio successivo, in un’area boscosa non lontana da casa. Avvolta in sacchi della spazzatura, con due sacchetti infilati in testa, in uno scenario che da subito ha lasciato spazio a interpretazioni e sospetti. Inizialmente l’ipotesi suicidaria aveva trovato spazio nelle carte, ma troppe domande restavano senza risposta: l’assenza di biglietti d’addio, la posizione del corpo, l’ambiguità degli ultimi movimenti. Nel corso del tempo, la figura di Sebastiano Visintin – marito della donna, fotografo in pensione di 72 anni – è rimasta costantemente al centro dell’attenzione mediatica. Non tanto per un’accusa diretta, quanto per il suo atteggiamento: talvolta distante, altre volte quasi teatrale, spesso difficile da decifrare. Oggi, con il suo nome formalmente iscritto tra gli indagati, la procura pare voler percorrere un sentiero investigativo più preciso, alla luce di nuove acquisizioni e rilievi. La reazione di Visintin a questa svolta? Apparentemente serena. Ha confermato di essere partito all’alba per recarsi in Austria, scegliendo come meta una località benessere tra laghi e montagne. Sauna, amici storici, passeggiate in bicicletta e “belle signorine”, come ha dichiarato in un’intervista telefonica, sono il suo programma per le giornate a venire. Parole che lasciano interdetti non tanto per il contenuto, quanto per il tono: un contrasto quasi dissonante rispetto alla gravità del momento. È davvero solo un tentativo di staccare la spina, o una forma di fuga psicologica da una realtà sempre più complessa? I legali di Visintin parlano di “atto dovuto”, sostenendo che l’indagine a suo carico sia una formalità necessaria per poter eseguire nuove attività investigative. Nessuna prova schiacciante, a loro dire. Nessun elemento realmente nuovo. Tuttavia, il cambio di status – da persona informata dei fatti a indagato – è un segnale chiaro che qualcosa si sta muovendo, e che gli inquirenti ritengono necessario esplorare più a fondo il ruolo del marito. Nel frattempo, la scena si sdoppia: da una parte le stanze della procura, dove si cercano risposte; dall’altra un hotel di montagna, dove Visintin si rilassa e distrae. La morte di Liliana Resinovich resta avvolta da troppe ombre. E la figura di Sebastiano, oggi più che mai, sembra dividersi tra due dimensioni inconciliabili: quella dell’uomo che ha perso la moglie e quella del possibile responsabile. La verità, forse, è ancora lontana. Ma una domanda – sussurrata da tempo e oggi tornata prepotente – resta sul tavolo: cosa è davvero accaduto tra le mura di quella casa, in quei giorni di dicembre? E soprattutto: chi era Liliana, prima di diventare un caso di cronaca? E ancora chi ha ucciso Liliana?
L’arte di ridere (di se stessi, soprattutto)
Se c’è una cosa che ho imparato in 56 gloriosi anni di disastri, cadute, crampi da yoga e appuntamenti con uomini che parlano con i cactus, è questa: l’autoironia è l’unico lifting che funziona davvero. Ridere di sé stessi è un superpotere. Ti salva dal baratro dell’autocommiserazione, ti protegge dai giudizi altrui, ti rende affascinante anche con i bigodini in testa e la maschera viso effetto Shrek. È l’antidoto perfetto contro la serietà tossica e la tentazione di prendersi troppo sul serio. Perché diciamolo: la vita è già abbastanza ridicola di suo, tanto vale assecondarla. Quando ero più giovane, volevo sembrare perfetta. Ero quella che si sistemava i capelli prima di uscire a buttare l’immondizia (perché non si sa mai che passi l’anima gemella con il sacchetto dell’organico). Poi la vita mi ha messo davanti a scene così grottesche da farmi capire che la perfezione è solo una trappola per le menti stressate. E che una risata, invece, è una liberazione. Come quella volta che, durante una riunione al Daily Whisper, sono intervenuta con sicurezza su un tema… dimenticando completamente di aver ancora i bigodini in testa. Nessuno ha detto niente. Ma tutti, da quel giorno, mi guardano con più rispetto. O paura. Non so. Oppure il giorno in cui, dopo un colloquio importante, sono uscita con la gonna incastrata nei collant, mostrando il mio reggicalze vintage a mezzo paese. Mi sono accorta dell’incidente solo quando Gavin mi ha detto: “Pippa, oggi hai l’allure di un film francese. O di un film comico… dipende dai gusti”. E vogliamo parlare della tecnologia? Ho fatto talmente tanti pasticci digitali che potrei aprire un corso: “Come sbagliare tutto in 3 clic”. Dalle crocchette per gatti all’iscrizione involontaria a un corso online di tai chi acrobatico per over 70, ho collezionato gaffe da far arrossire persino Siri. Ma ormai, rido. Racconto. Scrivo. E trasformo il disastro in intrattenimento. Perché ridere di sé non significa sminuirsi. Significa accettarsi. Sapere che sì, a volte siamo impacciati, imperfetti, stonati, goffi, ma anche vivi, autentici e tremendamente umani. E poi, diciamocelo: le persone che sanno ridere di sé sono irresistibili. Hanno quel fascino disarmante che conquista molto più di un lifting, un rossetto perfetto o un profilo Instagram patinato. Vivian dice sempre: “Chi non ride di sé stesso, finirà per far ridere gli altri a sua insaputa”. E ha ragione. Meglio riderci prima, e con stile. L’autoironia è come il cetriolo nel gin tonic: dà sapore, rinfresca, e ti fa sentire meglio anche nei momenti peggiori. Perché se puoi sorridere mentre tutto intorno va a rotoli, allora sei già un passo avanti. Quindi sì, care amiche (e cari lettori curiosi), vi invito a guardarvi allo specchio – anche con il pigiama macchiato e i capelli come un cespuglio – e dire: “Sì, sono un capolavoro tragicomico. E mi piaccio così.” E se qualcuno osa giudicare? Fategli un bel sorriso… e raccontategli l’aneddoto della gonna incastrata. Funziona sempre.
Nessuna resta indietro – La marcia silenziosa e potente del Tenente Colonnello Giulia Cornacchione
Ci sono battaglie che si combattono in silenzio. Con il cuore in gola e le cicatrici sotto la pelle. Ci sono guerre invisibili che si affrontano a mani nude, armate solo di coraggio, determinazione e amore. Giulia Cornacchione è un Ufficiale dell’Esercito Italiano. Una donna in divisa. Una sorella in armi. Ma prima ancora è una donna che ha guardato in faccia la paura, che ha conosciuto la fragilità e ne ha fatto forza. Dieci anni fa, il suo corpo ha sussurrato qualcosa che nessuno vorrebbe mai sentire: “Hai un tumore al seno”. Da quel giorno, la vita di Giulia è cambiata per sempre, ma non si è mai arresa. Ha combattuto, ha amato, ha sorriso. E ha trasformato la sua ferita in missione. In questa intervista, Giulia ci accompagna dentro il cuore della sua esperienza. Ci parla della Race for the Cure, della sorellanza che unisce le donne in rosa, delle lacrime versate, degli abbracci stretti, delle vittorie piccole e immense. Ci racconta cosa significa portare una divisa e, insieme, portare una storia da condividere. È un racconto che commuove, che scuote, che fa riflettere. Ma soprattutto è un inno alla vita, alla prevenzione, alla potenza della solidarietà. Perché, come dice Giulia: “nessuno deve rimanere indietro”. E questa è la sua marcia. La sua voce. La sua rivoluzione gentile. Ciao Giulia. Finalmente riusciamo a parlarne insieme. Vuoi raccontarci da dove nasce il tuo coinvolgimento con la Race for the Cure? Ciao Barbara, eccomi qui. Ce l’abbiamo fatta. Rispondere alle tue domande non è facile, perché parlare di certe cose a volte fa ancora un po’ male… e poi, quando comincio, divento un fiume in piena. Tutto è cominciato dieci anni fa, quando ho ricevuto una diagnosi di tumore al seno. Nel 2016, quasi alla fine delle terapie, ho scoperto la Race for the Cure. Era una luce. Un modo concreto per sostenere la ricerca. Ho partecipato con la mia famiglia, ma soprattutto con le mie sorelle in armi, le colleghe di corso. Donne incredibili che non mi hanno mai lasciata sola, nemmeno per un secondo. Camminare insieme ogni anno è diventata la nostra tradizione. Ma nel 2022 tutto ha assunto un significato ancora più profondo. Era da poco mancata Francesca, una ragazza della mia caserma, una madre, una guerriera. Quell’anno ho creato una squadra per ricordarla. Nessuna ambizione, solo un gesto d’amore. E invece… nel giro di dieci giorni eravamo più di 800. Ho capito che non era solo memoria. Era anche missione. Tenere vivo il ricordo, certo. Ma anche gridare l’importanza della prevenzione e raccogliere fondi per la lotta. Perché insieme, davvero, si può fare la differenza. Quanto è importante, secondo te, che le Forze Armate si impegnino attivamente in iniziative come questa? L’Esercito è da sempre in prima linea anche su questi fronti. Ovunque, in Italia, ci sono eventi di beneficenza organizzati da noi. Partecipiamo, promuoviamo, sosteniamo. È nel nostro DNA. Siamo al servizio del Paese. E mettersi al servizio significa anche questo: esserci. Per il prossimo. Per chi soffre. Per chi lotta. Cosa rende la Race for the Cure così speciale anche per chi partecipa per la prima volta? Una ragazza della squadra ha detto una frase bellissima: “La Race è uno stato d’animo”. Non è solo una corsa, una camminata, una manifestazione. È un’onda. Un’energia. Un abbraccio collettivo. Ti senti parte di qualcosa di grande. E anche solo promuoverla, parlarne, ti fa stare bene. Ti ricarica. Ti lega alle persone, anche quelle che incontri per caso… perché senti che parlate la stessa lingua. Quella del cuore. La maglia rosa è il simbolo delle donne che hanno affrontato il tumore. Che significato ha per te? Potentissimo. È un messaggio. È coraggio. È speranza. Quando vedi quante siamo, capisci che non sei sola. Che si può vincere. E allo stesso tempo, è uno specchio. Ti riconosci negli occhi di un’altra donna rosa, anche senza conoscerla. Sai quello che ha passato, perché hai attraversato lo stesso inferno. Eppure, siamo lì. A testa alta. A camminare. Insieme. Hai vissuto molti momenti toccanti in questi anni. Quali porti nel cuore? Due in particolare. Il primo è la mia prima Race. Non sapevo cosa aspettarmi. E invece mi sono trovata in mezzo a migliaia di persone che lottavano, gioivano, speravano. È stata una festa dell’anima. Il secondo è stato il palco del 2022. Ci hanno premiate come squadra iscritta online più numerosa. Una squadra nata per ricordare Francesca. Nessuna ambizione, solo amore. Quando mi hanno chiamata ho capito: ce l’avevamo fatta. Avevamo lasciato il segno. Avevamo trasformato il dolore in qualcosa di grande. E ho ripensato a una frase che mi porto dentro da quando indosso l’uniforme: “Nessuno resta indietro”. Cosa ostacola ancora, secondo te, la prevenzione? Non la cultura. L’emozione. Il pensiero che “capita sempre agli altri”. L’ho pensato anche io. Ero giovane, avevo appena partorito, facevo sport, vita sana, niente fumo, nessuna familiarità… eppure. Invece è capitato. A me. Da un giorno all’altro. Per questo racconto la mia storia: per spingere anche solo una donna a fare un controllo in più. Un’ecografia può salvarti la vita. Non è invasiva. Non fa male. Ma può fare tutta la differenza del mondo. All’interno dell’ambiente militare c’è attenzione verso il tema della prevenzione? Sì, e sempre di più. Ogni anno veniamo sottoposti a screening medici e visite accurate. Ma non solo: nelle caserme si organizzano incontri informativi, si parla di prevenzione. Io stessa tra pochi giorni andrò alla Scuola Ufficiali dell’Esercito a Torino per raccontare la mia esperienza. E questo dice tutto: la prevenzione non è solo una parola. È una priorità. Che cos’è, per te, una Donna in Rosa? Una donna coraggiosa. Che ha affrontato il dolore… e ha scelto di non nascondersi. Non è facile. Tante preferiscono non parlarne. Ma chi lo fa… crea legami. Accende luci. È un filo invisibile, quello che ci unisce. Ma fortissimo e reale. Hai incontrato storie che ti hanno lasciato un segno? Sì. Due in particolare: Paola e Simona. Due donne straordinarie che
Ponte del 25 Aprile: 7 Idee Magiche per una Fuga Primaverile da Ricordare
Quando il calendario regala un ponte come quello del 25 Aprile, l’unico vero dovere è… partire! La Festa della Liberazione diventa l’occasione perfetta per un weekend lungo all’insegna della scoperta, della natura in fiore e delle esperienze fuori dall’ordinario. Che tu abbia voglia di esplorare, rilassarti o vivere emozioni autentiche, ecco 7 idee da sogno per trascorrere il ponte del 25 Aprile con lo zaino in spalla e il cuore in festa! 1. Camminare tra i sentieri in fiore delle Cinque Terre (Liguria) È il momento perfetto per visitare questi cinque borghi incastonati tra mare e scogliere. I sentieri come il Sentiero Azzurro offrono viste mozzafiato e profumo di primavera. Cosa fare: trekking vista mare, vino bianco locale, una sosta con focaccia calda a Manarola. Consiglio da viaggiatore: parti presto al mattino per goderti i borghi con meno folla. 2. Esplorare Matera, la città di pietra (Basilicata) Con i suoi Sassi, Matera sembra un set cinematografico (non a caso lo è stato). Ad aprile il clima è ideale per perdersi tra vicoli, grotte e panorami lunari. Cosa fare: dormire in una casa scavata nella roccia, mangiare pane locale, visitare chiese rupestri. Tip emozionale: al tramonto, la vista dal Belvedere di Murgia Timone ti lascerà senza parole. 3. Vivere un weekend slow nelle Langhe (Piemonte) Colline verdi, borghi eleganti, e tanto, tanto buon vino. Le Langhe sono perfette per una fuga romantica o enogastronomica. Cosa fare: degustazioni nelle cantine, tartufi e formaggi, visita a Barolo e La Morra. Consiglio goloso: prenota una cena in un agriturismo con vista sulle vigne. 4. Fare un salto nel tempo a Urbino e nelle Marche rinascimentali Piccola ma potentissima, Urbino è una gemma rinascimentale incastonata tra le colline marchigiane. Cosa fare: visita al Palazzo Ducale, passeggiata sulle mura, gelato artigianale in Piazza della Repubblica. Bonus track: abbina la visita con una tappa a Gradara o alla Riviera del Conero. 5. Relax alle terme di Saturnia o Bagni San Filippo (Toscana) Cascate naturali di acqua calda solforosa, gratuite e incorniciate dal verde della Maremma. Cosa fare: immergersi nelle acque delle Cascate del Mulino, visitare Pitigliano e Sorano. Consiglio zen: porta un telo e un libro, e lasciati coccolare dalla natura. 6. Scoprire il fascino misterioso di Trieste (Friuli Venezia Giulia) Una città di confine, con anima mitteleuropea, perfetta per chi cerca poesia e caffè. Cosa fare: passeggiata sul Molo Audace, visita al Castello di Miramare, sosta in un caffè storico. Curiosità: qui l’espresso si chiama nero e il cappuccino capo. Ordina come un local! 7. Una fuga cittadina tra arte e gelati a Roma (Lazio) La Città Eterna in primavera è semplicemente perfetta. Cosa fare: un tour insolito tra Trastevere e il Gianicolo, picnic al Giardino degli Aranci, gelato a San Crispino. Consiglio per stupire: visita notturna ai Fori Imperiali con giochi di luce e narrazione. Mini Consigli per il Ponte Perfetto: • Prenota prima possibile: aprile è alta stagione per le fughe brevi! • Scegli treni o bus per evitare traffico e goderti il panorama. • Porta scarpe comode e un k-way: aprile sa essere poetico ma imprevedibile. • Assapora il momento: un viaggio breve può regalare ricordi infiniti.
L’algoritmo di Kovacs. Il commissario Emma Antinori e gli intrighi della criminalità
Il commissario Emma Antinori, psicologa specializzata in criminologia, è una figura di spicco all’interno del dipartimento di polizia di Firenze. La sua carriera, scandita da un’attenta dedizione alla risoluzione di crimini complessi, l’ha resa una delle menti più acute e rispettate nel mondo delle forze dell’ordine. Questa volta il commissario è alle prese con una serie di crimini efferati e apparentemente inspiegabili, sicuramente non opera di un solo serial killer, ma di un’organizzazione internazionale. Intrighi, atmosfere cupe e personaggi enigmatici, si alternano nella vita di Emma e la fanno immergere sempre di più nei luoghi bui dell’anima ma, quando la nebbia comincia a diradarsi, dal passato riaffiora qualcosa che la stupirà., mmm ACQUISTA ONLINE
Appuntamenti catastrofici L’uomo che parlava solo con il cane
Se è vero che ogni esperienza arricchisce, allora io dovrei avere il patrimonio emotivo di un oligarca. Perché nella mia carriera amorosa – che ormai ha più capitoli del Trono di Spade – ho collezionato appuntamenti talmente disastrosi che nemmeno Netflix avrebbe il coraggio di sceneggiarli. E tra tutti, il più memorabile resta lui: l’uomo che parlava solo con il cane. Avevamo fatto match su una di quelle app di incontri che promettono l’anima gemella ma consegnano, nella maggior parte dei casi, solo traumi da raccontare al pub. Il suo profilo era discreto: foto con cappotto elegante, bio sobria, amante delle passeggiate, del buon vino e… del suo cane, Argo. “All’anima sua!”, direbbe la signora Higgins. Ma io, ingenua come sempre, ho pensato: “Che carino, un uomo che ama gli animali! Sicuramente sarà empatico, affettuoso, sensibile”. Sì. SENSIBILE. Come un cactus. Ci incontriamo in un caffè del villaggio. Lui arriva in perfetto orario… con Argo. Un Labrador biondo, lucido, bellissimo. E fin qui, tutto bene. Sorrido, mi presento, mi siedo. Poi inizia la conversazione. O meglio: lui inizia a parlare con Argo. “Guarda, Argo! Che bella signora! Saluta, Argo! Dai, dimmi se ti piace!”. Io cerco di ridere, un po’ imbarazzata, convinta che stia solo rompendo il ghiaccio. Invece, no. È proprio il modo in cui comunica. Per tutto il primo quarto d’ora, ogni frase era indirizzata al cane. “Argo, sai che profumo di biscotti ha?” “Argo, secondo te ordina il cappuccino o è da tisana alla malva?” “Argo, credo che Pippa abbia un bel sorriso, che ne dici?” A un certo punto ho iniziato a pensare che forse mi fossi iscritta per sbaglio a un programma di dog dating. Il caffè è arrivato. Lui ha preso un tè verde (ovviamente), ma ha ordinato anche uno snack per Argo. Lo ha spezzettato con cura, lo ha disposto su un tovagliolino come se stesse servendo foie gras a Buckingham Palace. “Pippa – mi ha detto – Argo percepisce le vibrazioni delle persone. Se lui si rilassa, allora vuol dire che c’è connessione.” Argo, nel frattempo, stava dormendo con la lingua fuori. Io non sapevo se sentirmi lusingata o ignorata. Dopo 40 minuti – nei quali ho parlato più con il cane che con il suo padrone – ho tentato una fuga diplomatica. “Sai, ho un appuntamento… con… ehm… la mia estetista!” (un classico). Ma lui, serissimo, ha detto: “Argo è dispiaciuto. Aveva capito che c’era feeling.” Poi ha aggiunto: “Possiamo sentirci su WhatsApp, ma solo vocali. Così Argo può riconoscere la tua voce.” Giuro. È tutto vero. Ho ancora il messaggio salvato: “Ciao Pippa, siamo noi… Argo e papà. Oggi stiamo pensando a te. Bau bau.” Rachel ride ancora ogni volta che lo racconto. Gavin vuole farne un corto cinematografico. Kate invece ha detto: “Pippa, è già tanto se non ti ha chiesto di sposare entrambi.” Da allora, quando vedo un uomo con un cane, mi viene un brivido. Ma poi ci rido su. Perché l’amore, alla mia età, è anche questo: una continua raccolta di storie assurde da infilare nel diario della vita. E se non altro… Argo mi stava simpatica.