“Trimani o Tenevai” sarà la prima tappa di un viaggio attraverso l’evoluzione artistica di Giovanni Trimani, un viaggio alla scoperta delle sue mille sfaccettature.
La curatrice della mostra, Velia Littera, nonché direttrice di Pavart Roma, presenta per la prima volta una personale di Giovanni Trimani nella sua galleria e per l’occasione ha scelto alcune delle sue opere giovanili in modo da iniziare un percorso che attraversi la sua vasta produzione artistica. Il titolo della mostra “Trimani o Tenevai”, che può sembrare ironico, in realtà racchiude la sintesi massima della sua poetica e rappresenta uno dei concetti di vita a cui l’artista è molto legato. Il suo essere artista!
Trimani ha sperimentato tutte le tecniche pittoriche, dall’olio, all’acquerello, dal pastello alla tempera, focalizzandosi sull’acrilico in pittura e sulla lavorazione del ferro in scultura. Il colore e il segno sono i protagonisti assoluti delle sue opere: un colore puro, stridente e acceso che contrasta con il nero del segno di contorno che ci riporta lì, al colore dell’espressionismo e alla luce magica delle vetrate medievali.
Giovanni Trimani è un artista che parte dalle esperienze del suo vissuto, elaborandole e proponendo le sue emozioni in una chiave quanto più universale possibile, affinché possa essere condivisa da chiunque. Ed è qui la forza di un artista: riuscire ad arrivare al cuore del fruitore, essere in grado di raccontare le emozioni del fruitore attraverso le proprie.
Abbiamo incontrato Giovanni Trimani e lui con la magia del suo essere nel mondo ci ha condotto mano nella mano all’interno della sua visione e declinazione artistica.
Grazie Giovanni per questa intervista. Allora, così per iniziare: raccontaci di te. Chi sei? Cosa fai? Come lo fai?
Salve, sono Giovanni Trimani, sono nato a Roma e da sempre vivo e lavoro qui. Stavo per scrivere: “Faccio l’artista…”, in realtà “sono un artista”. È una piccola differenza, ma definisce il mio approccio alla vita e alla mia attività.
L’arte che cos’è?
È una bellissima domanda con una risposta difficilissima… Dire cos’è l’arte oggi mi ricorda quando in filosofia ho studiato le prove dell’esistenza di Dio. Non credo esista una definizione universale del termine Arte. In Italia siamo molto concentrati su una visione italo-centrica, una distorsione comune a tutto il mondo occidentale. Sia nella storiografia sia nella storia dell’arte il mondo europeo ed anglofono tende sempre ad avere un approccio autoreferenziale trattando il resto come esotico, nella migliore delle ipotesi. Non credo quindi che sia possibile dire ciò che è arte a Roma o Parigi e paragonare tale campo semantico con una lettura asiatica o orientale. Parafrasando un adagio di qualche anno fa mi limiterei a dire: “Non so definire cosa è Arte, ma quando la vedo so riconoscerla”.
Come ti sei avvicinato al mondo dell’arte?
È stata “colpa” di mio padre, Marco. Mio padre ha avuto la fortuna di frequentare molti artisti, Mino Maccari, Vangelli, Manzù, Monachesi, Melotti e tanti altri. Ha acquistato alcune opere che aveva in casa. Nella mia camera da bambino avevo una serie di olii e tempere di Maccari. Fin da bambino ho vissuto in un ambiente stimolante con quadri, libri e sculture. Sono rimasto folgorato.
Quando hai iniziato questo tuo viatico artistico?
Ho iniziato ad essere un artista professionista dal 2007. La verità è che ho sempre sognato di esserlo. Il mio primo quadro ad olio è del 1987, sicuramente l’anno più importante per la mia vocazione.
Ricordi le prime emozioni?
Libertà ed un’irrefrenabile voglia di giocare con i colori ed i materiali, le stesse che ho oggi.
A breve ci sarà la tua mostra dal titolo: “Trimani o Tenevai”, un titolo interessante: perché questo gioco di parole?
Fin da bambino hanno sempre giocato con il mio cognome, Trimani Tre mani ecc. Alcuni compagni di serate alla chiusura dei locali mi facevano questa domanda: “Trimani o te ne vai?”. L’ho voluta recuperare per questa mostra riconoscendo che nel gioco di parole c’è un significato più profondo. La curatrice ed io abbiamo così costruito un percorso più complesso sul concetto di essere in un tempo, di vivere in uno spazio.
La mostra è un viaggio alla scoperta delle tue mille sfaccettature, ce ne racconti qualcuna?
L’aspetto che più mi intriga della mostra, merito della perseveranza della curatrice è il continuum della mia produzione. Dai primi lavori del 1987 ad oggi non ho mai smesso di cercare sia un miglioramento tecnico che un affinamento della mia comunicazione. Non c’è dubbio che tra i lavori esposti del 1999 e quelli del 2017 ci siano molte differenze, ma non cambia la radice, in ogni mio lavoro dal primo all’ultimo ci sono sempre io e la mia storia ed il rapporto intimo che voglio costruire con l’osservatore.
Chi ha curato la tua mostra?
È Velia Littera, una donna molto intelligente e audace. Velia dirige la sua Galleria, Pavart di Roma, con una passione artistica. Molto spesso mi stupisce perchè confrontandomi con lei mi sembra di parlare con un collega e non con una curatrice. È bellissimo questo aspetto. Alcune volte i galleristi ed i curatori sono visti in primis da noi artisti come figure ieratiche, freddi calcolatori e rigidi precettori. Il rapporto con lei è invece molto aperto e sullo stesso piano, mantenendo intatto l’approccio serio e professionale del nostro lavoro. Non esiste una mostra ben riuscita se non c’è una curatela ben strutturata, una galleria adatta e un buon artista.
Perché: “…Noi siamo i piedi senza scarpe, noi siamo le mani dei mendicanti, ci lasci senza lacci, ci sfiori nella carità, ma ci temi, come le tasse che non paghi, come i rimorsi che evadi. Siamo al limite dei tuoi incubi, siamo ciò che sogni. Noi siamo: gli artisti…”, cosa si racchiude in tutto questo?
È un piccolo “inno” agli artisti che ho scritto un paio di anni fa durante la fase più acuta del Covid. Volevo sottolineare il rapporto spesso ambivalente che le persone hanno con gli artisti. C’è sempre un fascino che conquista, ma rimane sotteso un sospetto tra pubblico ed artista, l’idea che l’artista sia troppo fuori dal canone sociale. Amore e odio, Eros e Thanatos come il titolo di un’opera esposta, questi sono i sentimenti che, a mio giudizio, rappresentano il rapporto tra artisti e fruitori.
Perché molti pensano di scappare? E poi mi chiedo scappare da chi, da che cosa, dove?
Scappare è un meccanismo di difesa. Scappiamo dai nostri doveri, dalle situazioni scomode. Scappiamo da noi stessi, ma da noi stessi è impossibile scappare, neanche se sei Eddy Merckx (cit. “Radio freccia” di L.L.).
Perché siamo essere umani abitati dall’ansia, indecisione, esitazione?
Perchè siamo umani, a differenza degli animali non scappiamo solo per istinto e salvaguardia, scappiamo anche per vergogna e inadeguatezza. Nel racconto della Genesi c’è racchiuso il senso dell’umanità dell’uomo, l’animale mangerebbe la mela per fame senza che ciò sia legato ad una sovrastruttura morale o concettuale. Adamo ed Eva mangiano la mela non per fame, ma perchè essa rappresenta, è simbolo, non è più oggetto, ma diviene soggetto. Dopo il furto scappano, per vergogna e per rimorso, si nascondono, sono umani. Possiamo cambiare gli strumenti del nostro vivere, tecnologia e scienza, ma rimaniamo sempre gli stessi, imperfetti a volare come i calabroni, ma per fortuna non lo sappiamo.
Tu cosa racconti nei tuoi lavori attuali?
La stessa cosa dal 1987, cerco di raccontare l’uomo nella sua interezza partendo dal mio vissuto e dalle mie riflessioni sperando di trovare un terreno comune con lo spettatore.
Dove prendi l’ispirazione?
Da tutto ciò che è intorno a me, sono un vorace consumatore di tutto.
C’è un’opera che non avresti mai voluto realizzare? Perché?
Sinceramente no, ci sono opere che a distanza non giudico perfette o riuscite benissimo, ma ogni opera è funzionale alla successiva ed ha con essa un rapporto intimo, non esisterebbe la prima senza la seconda.
E l’opera che rifaresti più e più volte?
Nessuna, sono facile alla noia per cui mi piace cambiare sempre. Anche le opere fatte all’interno di un percorso o un progetto sono diverse, non riuscirei a fare sempre la stessa cosa, mi annoio.
Oggi, come si racconta l’arte?
Si racconta come sempre, guardandola cercando di rapportarsi con essa in modo puerile, accentandone le differenze ed anche gli aspetti meno piacevoli.
La GenZ secondo te apprezza l’arte oppure è solo impegnata a imbrattare le opere dei grandi artisti?
Penso siano due cose diverse, un ragazzo di 15 anni apprezza l’arte come me alla stessa età. Bisognerebbe solo presentare l’arte non come una pietra filosofale, ma semplicemente per quello che è: l’espressione attuale o passata di uomini che sono sullo stesso piano. In Italia abbiamo un virtuoso artista di nome Jago, forse uno dei pochi che riesce a coniugare un rapporto meraviglioso con la GenZ e una qualità elevata di opere. Il suo segreto è quello di comunicare in modo orizzontale il suo lavoro, senza porsi su un trono irraggiungibile. Per quanto riguarda le attuali contestazioni sul clima penso che sia un argomento diverso e che non sia assolutamente legato al rapporto con l’oggetto artistico. I giovani che imbrattano non sono luddisti recuperati dalla storia, non odiano l’arte, ma sanno che l’arte in alcuni contesti viene snaturata completamente e diviene solo trofeo e feticcio. Contestano una classe dirigente che sfrutta qualsiasi cosa, non ultima l’arte stessa. Non so se sia giusto, ma sono sicuro che attaccare frontalmente i giovani che si riuniscono in gruppo sotto un’idea è la cosa peggiore. La mia sola paura è che prima o poi si commetta un errore, ovvero che ci siano effettivamente dei danni. Purtroppo, ne sono quasi sicuro, alzando il livello di scontro sempre più il rischio è quasi certezza. L’atteggiamento delle istituzioni è pericoloso, non ha senso mettere in galera come un mafioso una persona che getta vernice lavabile sul muro di un palazzo, reagire in questo modo è solo l’arroccarsi di una classe dirigente vecchia e stantia. La mia più grande paura è vedere molti segnali simili al 1968, lo scollamento totale tra generazioni anche vicine e una repressione cieca e sorda a qualsiasi istanza di cambiamento.
Hai una fonte di ispirazione?
La mia ispirazione maggiore è il mondo intorno a me, io sono solo un filtro che trattiene alcuni granelli di riflessioni.
Chi sono stati e sono i tuoi maestri?
I miei maestri sono gli espressionisti degli anni 20 e 30, Picasso, Maccari e tanti altri autori. Come ha giustamente sottolineato Emanuela Di Vivona, una giovane storica dell’arte di Roma nel testo critico della mostra, non posso scordarel’Art Brut di Jean Dubuffet. Ho sempre avuto un difetto nel ricordare i nomi, ma ho sviluppato un’eccezionale memoria per le immagini. Se un’opera mi colpisce me la ricordo per sempre, come del resto ricordo tutti i miei lavori. Io sono perchè altri prima di me lo sono stati.
Ma esistono ancora le botteghe d’arte?
Siamo l’epoca del nucleare e degli atomi liberi. Esistono collettivi di artisti, ma vere e proprie botteghe in senso classico non ne ho notizia. Forse dipende dall’approccio molto egoico che abbiamo noi artisti contemporanei. Siamo atomi che difficilmente si fondono.
La tua mostra avrà la possibilità di diventare itinerante?
Speriamo, sarebbe uno sviluppo eccezionale.
Progetti 2023?
Uno dei progetti più affascinanti nati da questa mostra e dalla collaborazione con Velia Littera è organizzare altre 2 o 3 mostre proseguendo la presentazione dei miei lavori sia più recenti che più storici, in un percorso di continuità. L’idea coraggiosa di Velia è quella di ripercorrere la mia evoluzione artistica dal 1987 ai giorni nostri. Come ho scritto prima, Velia è una gallerista/curatrice/Artista e come tutti gli artisti ha una visione e un approccio libero alle tematiche. È un progetto che mi mette i brividi perchè mi fa vedere il mio lavoro da una prospettiva diversa che mi inorgoglisce, ma allo stesso tempo mi spaventa. Sono sicuro che avrà successo poiché Velia è molto sensibile ed è affiancata dalla sua socia l’architetto Deborah Mennella, che compare poco sulla ribalta, ma ha un ruolo fondamentale nell’organizzazione della Pavart (mi odierà per averla citata!).
Vuoi aggiungere altro?
Vorrei ringraziare tutte le persone che mi aiutano ogni giorno a fare il “matto” con i colori ed i e pennelli. La prima è mia moglie Susy senza la quale oggi non sarei qui. Fondamentale è sempre il contributo dei collezionisti che in questi anni mi hanno supportato, tra i più importanti vorrei citare Leonardo di Vincenzo, Alfredo Colangelo, Silvestro “Silver” Catelli e Alessandro Vitiello.
Ph: Mattia Crocetti