C’era un tempo in cui pensavo che andare in palestra fosse sinonimo di benessere, energia, endorfine. Poi ho messo piede in una palestra vera e ho scoperto che il fitness, per me, è più simile a un poema epico… con crampi, imprecazioni e il costante desiderio di morire sul tapis roulant.
Tutto è iniziato quando Kate mi ha convinta – con il tono di chi trama una vendetta – a iscrivermi al “Pluckley Wellness Center”. Il nome suonava rassicurante. Wellness. Mi immaginavo candele profumate, tisane detox e gente che si abbraccia dopo lo stretching. Invece ho trovato attrezzi che sembrano strumenti medievali di tortura, personal trainer che parlano solo per sigle (HIIT, AMRAP, RIP… sì, anche RIP), e uno spogliatoio così freddo che ti vien voglia di tornare nella bara di un fantasma.
Il primo giorno è stato traumatico. Il personal trainer, un ragazzo con bicipiti grandi quanto il mio frigorifero, mi ha accolto con un sorriso da copertina e la frase più temuta: “Facciamo una valutazione del livello iniziale!”. Risultato? Il mio livello iniziale era “gamberetto stanco”.
Abbiamo cominciato con il tapis roulant. Dopo tre minuti, avevo il fiatone, il sudore negli occhi e la sensazione di essere salita sull’Etna. A cinque minuti, ho finto un crampo diplomatico. “Forse il mio chakra del polpaccio è bloccato”, ho detto. Il trainer ha annuito, visibilmente perplesso.
Poi è stato il turno degli addominali. Gavin – che ovviamente ha voluto accompagnarmi per “documentare il mio percorso di rinascita” – ha assistito con entusiasmo, fino a quando non sono caduta all’indietro cercando di fare un crunch. “Pippa – ha detto – sembri una tartaruga ribaltata, ma con molto carisma.”
Il momento peggiore, però, è stato con gli attrezzi per le braccia. Ho sollevato i pesi con l’energia di una spugna bagnata. La signora accanto a me, 72 anni, faceva sollevamento olimpico mentre ascoltava musica classica. Io sudavo come un prosciutto al sole e riuscivo a malapena a tenere in mano la borraccia.
E vogliamo parlare delle lezioni di gruppo? Ho provato una sessione di Zumba. Pensavo fosse un ballo allegro. Invece mi sono ritrovata in mezzo a una tribù scatenata che saltava, roteava e gridava frasi motivazionali in spagnolo. Io cercavo solo di non calpestare nessuno e di non perdere il reggiseno sportivo, che sembrava avere vita propria.
Il giorno dopo non riuscivo a camminare. Ho strisciato per casa come un’eroina tragica, lamentandomi tra tisane alla curcuma e impacchi di arnica. Ho chiesto a Rachel se poteva portarmi il gin tonic a letto. Lei, impietosita, ha detto: “Pippa, la tua carriera atletica è finita prima di iniziare”.
Eppure, qualcosa in quella follia mi piace. Forse perché ogni disastro in palestra è un trionfo narrativo. Ogni crampo è un aneddoto. Ogni caduta un pezzo di commedia umana. E poi, in fondo, sto facendo qualcosa per me. Anche se lo faccio male. Anche se alla fine dell’allenamento, la mia unica energia rimasta è quella per sollevare il bicchiere.
Perché, come dico sempre, il vero fitness è trovare il coraggio di provarci. E magari farlo con ironia, con la pancia che trema e il mascara che cola. E se poi non dimagrisco… almeno riderò tantissimo. E anche quello, a modo suo, è esercizio.