Nel silenzio della soffitta – Il cold case della Val di Non

31 luglio 2016. A Cavareno, un piccolo comune incastonato nella quiete della Val di Non, in Trentino, l’aria è pesante di sole e di silenzio. Un giorno come tanti. Uno di quelli in cui niente dovrebbe accadere. E invece, qualcosa accade. Qualcosa di irreparabile. In una soffitta, Artur Karaboja, 41 anni, falegname, viene trovato impiccato. A scoprirlo è la sua ex compagna, con cui aveva avuto due figli. Racconterà che Artur quella mattina l’aveva chiamata, agitato. Qualcosa non andava. Era preoccupata, è corsa a casa. Lo ha trovato lì. Immobile. Morto.

I carabinieri arrivano sul posto. Fanno i rilievi. Nessun biglietto. Nessun segno evidente di violenza. Il medico parla di possibile suicidio. Nessuna autopsia viene disposta. La salma viene sepolta. Il caso si chiude. Rapido. Freddo. Silenzioso.

Un uomo pieno di vita

Ma chi era davvero Artur Karaboja? Era un uomo venuto dall’Albania, che aveva costruito con fatica la sua vita in Italia. Viveva a Cavareno, lavorava sodo, aveva amici, progetti, e soprattutto una famiglia: due figli, una casa. La mattina della sua morte aveva fatto colazione con un amico di vecchia data. Avevano riso, parlato. Nulla lasciava presagire un gesto estremo. Per la sorella, Elvira Karaboja, conosciuta in Italia con il nome di Hajrije, quel giorno segna l’inizio di un incubo. Non crede al suicidio. Non ci crede allora e non ci crederà mai. Perché conosceva suo fratello. Conosceva le sue ferite, ma anche la sua forza. Artur non si sarebbe tolto la vita così, in quel modo. Non senza lasciare un messaggio ai figli. Non senza spiegazioni. Non con una telefonata piena d’ansia e poi il silenzio.

Un caso archiviato troppo in fretta

Il fascicolo giudiziario viene chiuso nel giro di poche settimane. La parola fine arriva senza un’autopsia, senza un’indagine approfondita. Tutto archiviato come suicidio. Ma per Elvira, quella non è la verità. È solo una versione comoda. Una spiegazione facile. Ma sbagliata.

Inizia così una battaglia lunga otto anni. Elvira scrive lettere, fa appelli, va in televisione. Si rivolge persino alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, ma tutto sembra inutile. Nessuno la ascolta. Nessuno vuole riaprire quel cassetto pieno di polvere.

La battaglia per la verità

Nel 2022, Elvira si affida a un’avvocata di Livorno, Silvia Mesturini, esperta in criminologia applicata. Insieme decidono di riaprire il caso da sole, pezzo dopo pezzo. Ricostruiscono le ultime ore di Artur. Consultano esperti, raccolgono documenti, chiedono consulenze.

Il professor Luigi Papi, medico legale dell’Università di Pisa, e la criminologa Cristina Brondoni, specialista in suicidi e morti sospette, si uniscono all’indagine. Analizzano i dati, le testimonianze, i dettagli mai considerati prima. E iniziano ad emergere le prime incongruenze.

Le modalità del presunto suicidio non tornano. Le dinamiche della scena sono anomale. Le relazioni di Artur non sono mai state indagate a fondo. Nessun interrogatorio approfondito, nessun tracciato telefonico, nessuna perizia. Solo la fretta di chiudere.

Nel 2023, l’avvocata Mesturini presenta un’istanza ufficiale per la riapertura del caso. Il pubblico ministero Giorgio Bocciarelli apre un fascicolo, ma senza indagati né ipotesi di reato. Poi ne chiede l’archiviazione. Ma stavolta, Elvira non si arrende. Viene presentata opposizione formale all’archiviazione. Il caso finisce sul tavolo del giudice per le indagini preliminari, Marco Tamburrino, che ordina nuove indagini.

Il cold case della Val di Non

A quel punto, la Procura riapre ufficialmente il caso, stavolta con l’ipotesi di omicidio volontario. Dopo otto anni di silenzio e indifferenza, la morte di Artur Karaboja diventa un cold case. Un giallo irrisolto. Una ferita ancora aperta. Viene disposta la riesumazione del corpo. A occuparsi dell’autopsia sarà il dottor Nicola Pigaiani, dell’Istituto di Medicina Legale di Verona. Una perizia postuma, l’unica che potrà forse dire cosa è davvero successo nella soffitta di Cavareno quella mattina di luglio.

Per Elvira, questa è l’ultima possibilità di sapere la verità. Di dare un nome alla morte del fratello. Di riportare dignità a una vita che qualcuno ha cercato di seppellire due volte: con la corda, e poi con l’oblio.

Una storia di assenza e resistenza

Il caso di Artur Karaboja è una storia che parla di dolore e ostinazione. Di una giustizia che ha voltato le spalle, ma anche di una sorella che ha scelto di non voltarsi mai. È la storia di un uomo che forse è stato ucciso, e di una famiglia che per anni non ha avuto neppure il diritto di chiedere “perché?”. È una storia come tante altre, ma con una differenza: non è stata dimenticata. E forse, non sarà nemmeno taciuta. Perché un uomo non muore solo quando smette di respirare. Muore davvero quando nessuno si ricorda più di lui.

Oggi, Artur Karaboja è ancora una domanda aperta.   Ma da qualche parte, tra una perizia, una firma, e una memoria che non si arrende, forse la verità sta tornando a galla.

 

 

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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