Roma, estate del 1955. L’Italia è in pieno boom economico. I giornali raccontano la “Dolce Vita”, il cinema esplode, e nei bar si sussurra con curiosità delle nuove star e dei balli americani. Ma a pochi chilometri dalla capitale, sulle rive tranquille del lago Albano, si consuma uno dei delitti più inquietanti e dimenticati della storia italiana. Una donna, senza testa e senza utero, viene trovata dietro un cespuglio, il corpo coperto con pagine di giornale. Nessun segno di colluttazione. Nessuna traccia del volto. Solo un orologio fermo al polso, unico frammento di identità.
La cronaca lo ribattezzerà “il caso della decapitata di Castel Gandolfo”. Ma quel corpo ha un nome: Antonietta Longo, nata il 25 luglio 1925 a Mascalucia, alle pendici dell’Etna. Era una donna come tante, una domestica meridionale emigrata a Roma in cerca di lavoro, di una vita più giusta, di un futuro forse migliore. Ma il suo destino è stato cancellato. Con precisione. Con fretta. E soprattutto, con indifferenza.
Il ritrovamento
Il 10 luglio 1955, due uomini – un meccanico e un sacrestano – si avventurano a Castel Gandolfo per una gita. Si fermano nei pressi di una fonte, tra la vegetazione. E lì, tra i rovi e le pietre, trovano il cadavere: una donna decapitata, con profonde coltellate all’addome e gli organi riproduttivi asportati con una precisione che inquieta.
Secondo i primi rapporti medici, la testa è stata tranciata di netto, probabilmente con un solo colpo, forse di scure. Ma ciò che colpisce gli inquirenti è la tecnica usata per rimuovere l’utero e le ovaie: un’operazione da chirurgo esperto. Un medico. E se davvero si tratta di un medico, allora forse quella donna non è morta per una violenza improvvisa, ma per un aborto clandestino mal riuscito.
L’identificazione
Per giorni, il corpo resta senza nome. Nessun abito, nessun documento. Solo un orologio da polso, di marca Zeus, fermo sulle 3:36. Sarà proprio quell’orologio a svelare l’identità della vittima. Il nipote Orazio Reina, riconosce quel dono: glielo aveva regalato lui stesso alla zia Antonietta, anni prima.
Antonietta Longo aveva 29 anni. Era arrivata a Roma da Camerino nel 1949 e lavorava come domestica in casa Gasparri, in un quartiere borghese della capitale. Era una donna discreta, laboriosa. Ma nelle settimane precedenti la sua scomparsa, qualcosa era cambiato.
Gli ultimi giorni
Il 1° luglio Antonietta lascia improvvisamente la casa dove lavorava. Fa un prelievo consistente dal conto postale: 231.120 lire. Compra abiti eleganti, biancheria nuova, una valigia. Sembra prepararsi a partire, forse per una fuga. Il 5 luglio spedisce una lettera ai parenti in Sicilia, scritta dalla stazione Termini, dove annuncia un’imminente visita al paese e l’arrivo di un “nipotino”. È un messaggio che suona strano. Perché annunciare un viaggio con una lettera, se era davvero in procinto di arrivare? Nel frattempo, viene ritrovata una copia del quotidiano “Il Messaggero” del 5 luglio, piegata e adagiata sul corpo. Un segnale? Una messa in scena? Una data di morte?
Le testimonianze ignorate
Una delle piste più inquietanti arriva da un’intervista rilasciata a “Realtà Illustrata”, all’epoca, da una giovane collega domestica, Lina Federico, amica di Antonietta. Racconta che Antonietta le aveva confessato di essere rimasta incinta del suo datore di lavoro, Cesare Gasparri, e che questi le avrebbe promesso un aborto sicuro tramite un medico fidato. Ma anche che lei non voleva abortire, sognava un figlio, una famiglia, una vita diversa. Quella testimonianza fu inoltrata alla questura, ma mai approfondita. Nessun interrogatorio, nessuna verifica. Tutto insabbiato. La lettera originale spedita da Antonietta fu sequestrata dagli inquirenti e mai restituita.
La pista dell’aborto clandestino
Il nipote di Antonietta, Giuseppe Rena, ha dedicato anni di ricerche alla ricostruzione della vicenda, e ha raccontato tutto nel libro “Io sono Antonietta – Cronaca di un delitto”. Per lui, il delitto non avvenne a Castel Gandolfo, ma altrove. Il corpo fu trasportato lì dopo essere stato mutilato. Tutto parla di un’operazione chirurgica: il taglio addominale, l’asportazione degli organi, la precisione dell’occultamento. Non è un delitto d’impeto, non è un atto di follia. È un insabbiamento pianificato, per nascondere prove. Come se Antonietta fosse morta sotto i ferri di un aborto illegale, e chi l’ha aiutata, per salvarsi, ha fatto sparire ogni traccia.
In quegli stessi giorni, a Roma, sparisce misteriosamente un medico francese, noto per pratiche clandestine, radiato dall’albo. Viveva a Monte Mario con la moglie. Nessuno li rivedrà più. Nessun colpevole. Nessun processo.
Né la testa né l’assassino saranno mai ritrovati. Nessun procedimento legale verrà mai aperto. Nessun atto d’accusa. Il commissario Ugo Macera, a distanza di anni, dichiarerà in un’intervista: “Sapevo chi era stato, ma mi fu imposto il silenzio.”
Il caso viene archiviato. La stampa si concentra sul sensazionalismo. La giustizia tace. La famiglia resta in silenzio, schiacciata dalla povertà e dalla paura.
Un simbolo sepolto dal silenzio
La storia di Antonietta Longo è il ritratto perfetto di una società che puniva le donne quando sceglievano di vivere, di amare, di essere madri fuori dalle regole imposte. È la storia di un’Italia che proteggeva i colpevoli se erano influenti, e seppelliva le vittime se erano povere.
Antonietta non è morta solo per mano di chi l’ha mutilata. È stata uccisa da un sistema di potere, silenzio e ipocrisia, dove la dignità femminile era invisibile, e il corpo di una donna poteva sparire senza conseguenze.
Oggi, raccontare la sua storia non è solo un atto di memoria: è un atto di giustizia. Per lei, e per tutte le donne che come lei sono state cancellate due volte: dalla vita e dalla verità.