La Signora degli Scarafaggi

Sabato 11 marzo debutta al Teatro Furio Camillo il monologo: “La Signora degli Scarafaggi”, scritto e diretto da Fabrizio Ansaldo. Il tutto è ambientato nel 1969. La trama racconta di una donna americana che si trasferisce a New York per cercare lavoro. La città è in fermento per i moti di protesta giovanili, il raduno musicale di Woodstock e la guerra del Vietnam. I vicini sono giovani, chiassosi, e a causa di un buco nel muro comunicante con la loro cucina, Mascia si ritrova la casa invasa dagli scarafaggi. Quando parliamo di scarafaggi il debito con Kafka appare naturale, consequenziale. In questo monologo esistenzialista, gotico, melodrammatico e con caratteri fiabeschi, il personaggio è in continuo conflitto con una collettività che lo relega ai margini. Procede tra insicurezze e angoscia rivolgendosi domande cui non giungono mai risposte esaustive. Interrogativi che, sollecitati da un forte risentimento, lentamente consumano la protagonista. Questo atto unico non si pone tanto il problema morale del bene e del male, come nel “sottosuolo dostoevskiano”, quanto quello della condizione di segregazione, rifiuto, cui sono relegati coloro che non riescono a integrarsi nella società. Il 1969 è stato l’anno dello sbarco sulla luna, della guerra del Vietnam, del raduno musicale di Woodstock, delle rivolte e dei movimenti studenteschi per i diritti civili e contro la guerra, dell’“immaginazione al potere”. Ed è proprio l’immaginazione che caratterizza il personaggio di Mascia. Un’immaginazione molto diversa da quei giovani: alterata, malata. A lei non interessa l’atterraggio sulla luna, non sopporta la musica rock, non le importa del Vietnam e tanto meno delle lotte politico sociali che infiammano il suo tempo.  Lei non lotta contro l’establishment, “non porta margherite nei capelli, non si ciba di bacche e lamponi”, non fuma marjuana.  Mascia De Gregorio desidera soltanto essere integrata, accolta, amata. “La signora degli scarafaggi” è il canto dei reietti, degli outsider, dei “senza un posto nel mondo”.  Dedicato a tutti quelli che non ce la fanno. Fabrizio Ansaldo ci racconta questo suo intenso lavoro.

  

Sabato 11 marzo il sipario si apre su: La signora degli scarafaggi”, di che cosa parla?

L’atto unico/monologo racconta quanto sia difficile per alcuni esistere. Quanto ci si illude attraverso l’amore, la fede religiosa, il desiderio di essere accettati e visibili ai propri simili, e scoprire alla fine che quello che veramente conta è la solidarietà, il soccorrevole aiuto da chi mai avremmo immaginato. E l’immaginazione, uno dei temi centrali, è così forte da preferirsi alla cruda realtà. È qui che il risentimento della protagonista si trasforma in una insana voglia di riscatto, vendetta.

Come è nata l’idea di scrivere questa drammaturgia?

Conoscevo il racconto breve di fantascienza The Roaches (1965) di T. M. Disch e, credo nel 2018, ne trassi, liberamente ispirato, un monologo di ‘15 ed inserirlo nello spettacolo “SoleDonne” (2019). Mi resi conto di avere tra le mani un personaggio che meritava più spazio, profondità e originalità, e lo portai a una ora di performance.

Durante la stesura aveva già in mente come realizzare il monologo sulla scena?

Quanto più scarno. Andando avanti con le prove cominciai a togliere tavolo, sedie, ogni cosa che potesse risultare d’ingombro. Quando siamo ossessionati, arrabbiati, non vediamo altro! Mascia non ha bisogno di arredi e oggetti: perché lei non li vede. E così è stato. Con il giusto disappunto dell’attrice cui andavo togliendole appoggi.

Perché un monologo?

Il monologo permette profondità, confessione piena a Dio e al mondo. È come l’urlo di Munch, quanti ne vede sulla tela? Uno soltanto, con il capo tra le mani e la bocca spalancata. Inoltre, è una sfida per l’attore che lo affronta.

Il personaggio che caratteristiche ha?

Mascia De Gregorio ha molte cose che noialtri non vorremmo, ma che in fondo ci appartengono. È nevrotica, schizofrenica, ansiosa, piena di sentimenti contrastanti, ingenua, pura, ma anche cattiva e non per sua colpa. È la società a renderla tale, non viceversa. Una comunità che nel precedente secolo dell’apparire, dell’immagine, della visibilità esasperata, relega/condanna alcuni all’oscurità, proprio come gli scarafaggi. Mascia è una fuori dal coro, una reietta, un outsider. Direi, una sottoproletaria.

Mentre l’interprete?

Cristina Frioni aveva già ha interpretato in “SoleDonne” questo personaggio, ma non così a fondo. Nonostante non possieda le peculiarità emotive del personaggio, sapevamo entrambi che era nelle sue corde. Pertanto, non mi aspetto gratitudine in quanto credo di averle instillato nevrosi che prima non aveva (o peggio, non ne era a conoscenza). Ovviamente, scherzo.

Il mondo degli scarafaggi che posto occupano nella drammaturgia?

Gli scarafaggi sono dei personaggi con tanto di nomi di battesimo. Non hanno tridimensionalità, ma, come tutti gli animali soccorrevoli e buoni d’animo, ne apprezziamo i gesti e le intenzioni. Siamo sempre noialtri a usare gli animali per il bene e per il male, loro non ne hanno colpa.

Perché gli scarafaggi e non le api o un altro animale?

Sono quanto di più sgradevole all’immaginario umano. Le api portano il miele, i topini si possono comprare al negozio e vederli giocare (i ratti: troppo grossi da schiacciare sul palco). Ma lei ha mai giocato con uno scarafaggio? Qualcuno lo ha fatto da piccolo, ma per poi strappargli via le zampette! Kafka ha il merito di aver introdotto un’immagine e un incipit universali, siamo sempre a lui debitori. Ma ci tengo ad aggiungere che non sono partito dal suo racconto famoso, ma da un’esperienza personale che non vi tedio ora qui, e naturalmente dal breve racconto di T. M. Disch.

Ci sono anche delle musiche che accompagnano l’opera, che ruolo hanno nell’insieme dello spettacolo?

Niente come la musica veicola lo stato d’animo. La musica non è decorativa, ma dentro il personaggio, nei raccordi, nei momenti teneri e di apprensione, nei canti e nelle preghiere. La musica e le parole sono il corpo di Mascia. Copione teatrale e spartito musicale si appartengono.

Siamo nel 1969 a New York: che cosa accade?

La città, come altre nel mondo, è in fermento per i moti giovanili di protesta contro l’establishment, la Guerra del Vietnam, etc. I giovani hippie stanno cambiando non soltanto il costume, ma rompono con il potere e la politica di quegli anni, la contestano senza distruggere vetrine, con un nuovo linguaggio, esoterico, religioso, solidale, musicale, letterario.

La Grande Mela rappresenta ancora il sogno?

Non più come un tempo. Prima non c’era Internet, i cellulari. Oggi tutto ci pare più vicino senza esserci mai andati. Crediamo di conoscere il mondo senza averlo visto realmente: abbiamo molto in comune con l’immaginazione distorta/malata di Mascia.

Quanto il raduno musicale di Woodstock e la guerra del Vietnam incidono nel racconto?

Sono alcuni dei grandi eventi accaduti in quell’anno. Lo sbarco sulla luna è ancora un altro grande sogno collettivo. Ma questi avvenimenti non incidono sulla protagonista, preoccupata da ben altre cose. Mascia avrebbe forse voluto far parte di quei sogni, ma lei non appartiene alla comunità e tanto meno a quegli hippie che disapprova anche se riconosce di non essere poi così diversa da loro.

Soprattutto perché scegliere questo contesto storico?

Come ho detto il 1969 rappresenta un anno ricco di fermenti sociali, musicali, politici, letterari come pochi altri. I sogni di una comunità, meglio ancora “l’immaginario collettivo”, avvengono in contemporaneità con la fantasia del personaggio che è lasciato fuori, allontanato, isolato.

Quanto Kafka c’è in questo lavoro?

Già dal cognome De Gregorio si capisce che ho voluto omaggiarlo. Ma il mio monologo è molto più vicino alle “Memorie del sottosuolo” dostoevskiano o al Gobbo di Notre Dame o al già citato T. M. Disch. Kafka è come un marchio di fabbrica, un brand, non appena si pronuncia o si parla di questi insetti. Questa mia pièce la classificherei, con consapevole umiltà, uno degli abiti della collezione.

In questo monologo qual è il fulcro centrale, il messaggio da inviare allo spettatore?

Non ci sono messaggi. Il lavoro è stato quello di esporre una storia che parlasse di sentimenti, di speranza, di ingiustizia, di dare voce a coloro che si riconoscono in quelle condizioni, a quelli che fanno fatica a esistere in qualsiasi modo: economico, sociale, psichico.

“I sentieri si costruiscono viaggiando (F. Kafka)”, quanto di questo c’è nell’opera?

Ho concepito questa pièce come una fiaba. E come tutte le fiabe è cruenta: proprio come aveva affermato Kafka. Se un sentiero si è aperto, e non vi è nuovo sentiero che non richieda sacrificio e abnegazione, è stato quello di aver viaggiato nella mente del personaggio.

Chi sono i suoi compagni di viaggio?

Credo che noi tutti siamo compagni di viaggio di Mascia nell’attimo della condivisione. Io per primo mi sono affidato a questo personaggio e sono ricambiato perché lei mi parla e si muove per la casa come se ci fosse sempre stata.

Andrete in tour?

Dopo il debutto ci organizzeremo.

Progetti 2023?

Far vedere il mondo a Mascia.

Vuole aggiungere altro?

Non accalcatevi fuori del teatro! Succederà poi in sala, proprio come quegli insetti…

Successivo
Razza Canara

Top 3 Stories