“Io mi chiamo G” anteprima nazionale sabato 22 luglio 2023 ai Giardini della Filarmonica Romana per la regia di Marco Belocchi. Riproporre Gaber a vent’anni dalla scomparsa non è soltanto un doveroso omaggio ad un grande artista, ma è necessario e indispensabile! In un tempo come il nostro, in cui i valori si sono totalmente dissolti, in cui il degrado culturale ha raggiunto minimi storici, in cui la politica non ha quasi più senso e certamente non rappresenta più il popolo, ma è asservita ai poteri forti, in cui globalizzazione, televisione, sistemi digitali, social e quant’altro sta sempre più soppiantando l’umano, spesso ci siamo trovati a pensare: ma cosa ne direbbe oggi Gaber di tutto questo, lui che, in qualche modo, lo aveva presagito, preconizzato, paventato? Ovviamente non lo sappiamo e allora andiamo a ripercorrere il pensiero, ovvero le canzoni e i testi straordinari di questo straordinario artista, forse unico nel panorama italiano, non solo per le sue peculiarità artistiche, ma per la coerenza assoluta, per non aver mai ceduto a compromessi o ai facili successi. Un’artista che sapeva toccare la mente, ma anche il cuore, con sarcasmo, con dolcezza, con intelligenza, con sensibilità e soprattutto con un’umanità coinvolgente. Qualcuno ha detto che quando si usciva dai suoi spettacoli, (e noi siamo della generazione che ne ha per fortuna usufruito) ci si sentiva migliori, appagati da un senso di appartenenza umana. Ecco questo è il senso di riproporre ripensare e meditare Gaber. Certamente Gaber senza Gaber non è la stessa cosa, indiscutibilmente le interpretazioni erano un tutt’uno con i testi e le canzoni e ne risultavano performance ineguagliabili. Purtroppo, questo accade ed è accaduto con tutti i grandi autori-interpreti, da Molière a De Filippo, da Luis Armstrong ai Pink Floyd, ma è anche un modo per perpetuarne la memoria, il messaggio, la bellezza.
Naturalmente nel pensare lo spettacolo occorre operare delle scelte, anche dolorose, sacrificare brani che sono nella memoria collettiva, per non rischiare di fare una greatest hits che alla fine rimane in superficie. La nostra scelta ha voluto privilegiare il Gaber forse meno noto, tralasciando la politica in senso stretto, attenendoci semmai a qualche apertura sociale/comportamentale, e recuperando invece il Gaber più intimo, più sensibile, vorremmo dire più femminile. Perché in fondo Gaber aveva due anime, sapeva miscelare perfettamente quella maschile, più sarcastica e politica, a quella femminile, scura e malinconica, a tratti dolce e sensuale. Anche per questo abbiamo scelto due interpreti che potessero sdoppiare queste due anime, un attore e un’attrice/cantante, proprio per restituire le due facce in lui così mirabilmente indissolubili, evitando però letture o altro, ma mettendo in scena i brani, “recitando”, nel senso più completo della parola, come del resto faceva lo stesso Gaber.
Nello stesso tempo come linea-up musicale abbiamo scelto un trio dalle venature rock, il classico chitarra-basso-batteria, (con gli arrangiamenti del M° Andrea Moriconi), per rendere al massimo la musicalità dei brani, esaltarne le armonie e la modernità e perché no anche una certa aggressività tutt’altro che retro. La scenografia invece sarà, a parte qualche elemento scenico, tutta visuale, con proiezioni che supporteranno sia i momenti musicali che quelli in prosa. I contrasti e chiaroscuri di questa scelta sono la nostra linea d’interpretazione di brani come: “Prima dell’amore” e “Dopo l’amore”, di “Quando sarò capace di amare” o “Com’è bella la città”, oppure di “Piccoli spostamenti del cuore”, “Lo specchio”, etc.
“Ci auguriamo che Gaber possa ancora una volta toccare i cuori e le menti di tutti”, ci dice Marco Belocchi al termine di questa coinvolgente intervista.
Sabato 22 luglio prima Nazionale di: “Io mi chiamo G”, perché riproporre Giorgio Gaber?
Innanzitutto, quest’anno ricorre il ventennale dalla sua scomparsa e poi ci siamo accorti che la generazione dei ventenni spesso non lo conoscono e questa mi sembra una rimozione grave, dato che Gaber è un artista quasi unico nel panorama nazionale ed ha rappresentato un notevole punto di riferimento nel teatro, nella canzone e non ultimo nella politica per oltre un trentennio. Quindi direi che riproporlo non è necessario, ma indispensabile.
Che cosa rappresenta Giorgio Gaber per l’arte non solo italiana?
È appunto quasi un unicum, lui prese a modello certi chansonnier francesi come Jacques Brel, ma poi sviluppò il suo personalissimo percorso, insieme all’inseparabile Sandro Luporini, fondando il cosiddetto “Teatro Canzone”, in cui brani musicali e brani di prosa si intersecavano prendendo forme narrative complesse e notevolmente sviluppate. Spesso all’interno delle stesse canzoni si alternavano brani parlati e cantati, che Gaber, nelle sue straordinarie perfomance dal vivo, rendeva estremamente coinvolgenti. Io lo vidi in un paio di occasioni a cavallo tra gli ottanta e i primi novanta e mi fece un’impressione indelebile, aveva una forza comunicativa e una generosità uniche.
Quali sono gli insegnamenti che Gaber ci ha lasciato?
Sarebbe facile parlare delle sue idee, ma io invece sottolineerei la sua autentica e assoluta dedizione al lavoro, al teatro. Gaber era un perfezionista e uno sperimentatore, sia sul piano musicale che su quello della messa in scena. Per esempio, nei suoi brani talvolta modifica gli arrangiamenti da uno spettacolo all’altro e anche le parole di certi monologhi si adeguano ai tempi che cambiano, in un lavoro di lima incessante. Questo forse è una degli insegnamenti più profondi: non si arriva a dei risultati per caso, ma con il lavoro duro e continuo.
La nostra società è trasformata in maniera radicale, se vogliamo Gaber potremmo dire che in qualche modo l’ha presagito?
Certamente rileggendo i suoi testi, sembra stupefacente la sua capacità di lettura delle situazioni storiche in cui viveva quotidianamente. Non è una qualità profetica, è lucidità, o forse un effetto spugna che gli consentiva di intuire, senza alcun pregiudizio, ciò che gli accadeva intorno e inevitabilmente lo presagiva prima che gli effetti si manifestassero in maniera chiara. Poi naturalmente le lunghe sedute con Luporini, in cui elaboravano i testi, avranno fatto il resto, ma resta l’impostazione dei problemi, il saper avvertire il cambiamento nel momento stesso che si stava preparando. Non vorrei fare paragoni irriverenti (tra l’altro qualcuno li ha già fatti), ma è una capacità che ritrovo moltissimo negli ultimi scritti di Pasolini. Mi sono chiesto più volte come avrebbe reagito agli eventi di questi ultimi anni, naturalmente non ho la risposta, ma la desumo dai suoi testi. In uno dei suoi più sconvolgenti afferma che il potere verrà preso dai tecnocrati, dagli scienziati… Beh, sono arrivati!
Qual è il pensiero che Gaber comunicava con le sue canzoni?
Io credo che, al di là dei suoi temi che sono moltissimi, dalla politica, ai sentimenti, al sociale, quello che effettivamente traspare è un’autenticità del suo pensiero e una coerenza assoluta, il non fare sconti a nessuno, anche a discapito del successo conquistato a fatica. In “Polli di allevamento” del 1978 non ha esitato a criticare fortemente il movimento studentesco, che era parte attiva del suo pubblico, per additargli gli sbagli e le incoerenze. Non la presero bene, lo contestarono, ma lui non è certo venuto a patti, è andato avanti per la sua strada, lucido come sempre. Ed infatti aveva ragione. Di lì a qualche anno tutti si sono accorti chi erano i polli d’allevamento.
Potremmo definire Gaber un eroe, un paladino di verità?
No, non credo che sia stato un eroe, e credo che questo appellativo non sarebbe piaciuto neanche lui. Forse una sorta di coscienza, in qualche modo è stato la coscienza, talora inascoltata, del nostro paese. Spesso scomodo, certamente accattivante perché le canzoni erano belle e lui era bravo, ma in fondo, specialmente certa sinistra, credo lo detestasse anche se ora ne fanno talvolta una loro bandiera.
Quali sono state le sue peculiarità artistiche?
Era innanzitutto un musicista, spesso si tende a dimenticarlo, un compositore raffinato e innovativo. Le sue canzoni, ne abbiamo avuto la riprova lavorandoci su, sono solo apparentemente “facili”. In realtà richiedono una notevole abilità canora e interpretativa, che ne facevano, appunto uno straordinario performer. Noi, infatti, nello spettacolo abbiamo scelto di separare le parti cantate da quelle recitate, affidandole a due interpreti, non perché sia impossibile, ma è estremamente difficile fare entrambe le cose.
Gaber non ha mai ceduto ai compromessi, la coerenza era alla base del suo essere persona, quanto di questo manca nella nostra società?
Come ho detto prima, la coerenza era uno dei suoi punti fermi ed è quasi scontato affermare che persone, artisti come lui oggi ci mancano da morire. Del resto, è anche la società che, spingendo verso l’omologazione, non genera più artisti così. È triste vedere chi ha successo oggi, al confronto con Gaber (e non solo lui) sono pigmei, il cui messaggio, ammesso che ci sia, nasconde un vuoto cosmico. Questo credo sia una sconfitta per tutti, forse la vittoria per qualcuno.
Perché quando si usciva dai suoi spettacoli ci si sentiva migliori, appagati da un senso di appartenenza umana?
Potrei dire perché in fondo ti dava una speranza, la speranza di un mondo migliore, in fondo Gaber era uno degli ultimi utopisti. Perché nonostante le ironie, i sarcasmi con cui condiva i suoi spettacoli, e in cui quasi tutti si riconoscevano, si usciva con un senso di liberazione, era probabilmente catartico nel senso veramente greco della parola. Quando gli ateniesi assistevano alle vicende tragiche di Edipo o di Agamennone, il male era lì davanti agli occhi, rappresentato, ma quando finiva, ci si alzava e si poteva cominciare a costruire un mondo migliore. L’effetto, alla fine degli spettacoli di Gaber, era molto simile.
Chi sono i suoi compagni di viaggio?
I miei compagni sono l’attrice/cantante Maria Teresa Pintus, con cui ho lavorato già in diversi spettacoli, l’attore Marco Zangardi, che in realtà è il vero ideatore del progetto e che poi mi ha coinvolto, credendo fortemente in questa collaborazione. Poi i musicisti: il chitarrista e arrangiatore Andrea Moriconi, con cui abbiamo scelto i brani, il bassista Fabio Landi e il batterista Valerio Cosmai, un trio affiatatissimo dal sound venato di rock. Infine, la parte visuale curata da Maria Letizia Avato, che probabilmente, per motivi tecnici, ci accompagnerà solo dalla ripresa autunnale.
Quanto è stato difficile e immagino coinvolgente avere il timone della regia?
Più che difficile direi per me, abituato alla prosa, ai classici, inusuale, ma affascinantissimo. A me piace lavorare con la musica anche dal vivo, è sempre stata componente essenziale dei miei spettacoli. Ma un conto è inserire la musica all’interno di una tessitura drammaturgica, altro è partire dalla musica e inserirvi una linea tematico-narrativa coerente e coinvolgente. Quindi si cambia prospettiva, si parte dal concerto: in realtà è un concerto con dei testi teatrali. Far funzionare tutto questo è una sfida elettrizzante (e aggiungo divertente) che mi porterà sicuramente ad altre sperimentazioni del genere in futuro.
Che cosa vi aspettate dal pubblico?
Che sia toccato nel cuore e nella mente e che anche da questo spettacolo, come da quelli di Gaber, possa uscire “migliore”. È il miglior auspicio che posso immaginare.
Andrete in tour?
Ci proviamo, abbiamo delle possibilità a Firenze. Intanto lo riproporremo a Roma in autunno al teatro Lo Spazio e poi tenteremo in tutti i modi, ma sappiamo bene che la distribuzione teatrale in Italia è piuttosto complicata.
Progetti?
Alcune riprese: Poliphonia, due atti unici di Maria Letizia Avato al teatro Sophia a gennaio, un teatro bomboniera al centro di Roma. E una novità, una commedia brillante, che mi vedrà anche interprete oltre che regista, a febbraio al teatro Marconi, che per ora non svelo.