È uno sguardo basso. Una porta sbattuta. Un silenzio ostinato o a volte è un urlo. Una provocazione. Un atto estremo. La rabbia dei giovani non sempre si mostra con parole chiare. Spesso si traveste da indifferenza, da noia, da disprezzo.
Ma dietro, c’è un grido: “Guardami. Ascoltami. Riconoscimi”. Viviamo in un tempo che corre veloce, ma che ascolta poco. E i giovani, immersi in un mondo iperconnesso e iperesigente, faticano sempre più a trovare un posto dove poter essere semplicemente se stessi: imperfetti, fragili, veri.
Una rabbia che nasce dal vuoto. La rabbia adolescenziale e giovanile non è nuova. È parte del processo di crescita, di separazione, di identità.
Ma oggi sembra più cupa. Più solitaria. Più esplosiva. Perché?
Perché spesso nasce dal vuoto. Dal vuoto di senso. Di dialogo. Di riconoscimento. Una generazione che vive tra aspettative irraggiungibili, precarietà esistenziale, solitudine emotiva. Hanno tutto, ma non si sentono visti. Vivono in mezzo alla folla dei social, ma si sentono soli nel cuore. Ricevono milioni di stimoli, ma pochi spazi per essere davvero. L’equilibrio fragile tra identità e rifiuto. Molti giovani oggi oscillano tra l’ansia di essere accettati e il desiderio di ribellarsi. Un’identità costruita su “mi piace” digitali, ma senza veri specchi emotivi.
E così, quando si sentono giudicati, ignorati o esclusi, la rabbia monta.
Non è solo protesta. È una richiesta disperata: “Dammi un posto nel mondo”.Perché ogni atto aggressivo – dal bullismo alla violenza verbale, fino ai gesti più estremi – è spesso il sintomo di un’identità che non sa come reggere il rifiuto.Famiglie che faticano, adulti che tacciono. Molti adulti non sanno più come parlare ai giovani. Li etichettano: “viziati”, “fragili”, “iperconnessi”, “impreparati alla vita”. Ma raramente si chiedono: da chi hanno imparato? Chi ha insegnato loro a stare nelle emozioni? L’ascolto non giudicante è un’arte che gli adulti spesso dimenticano. E i giovani, allora, si chiudono. Si rifugiano nei gruppi, nei videogiochi, nei social, nelle stanze interiori dove nessuno entra. Cosa può fare la psicologia? Può aprire varchi. Può offrire uno spazio sicuro dove essere visti senza essere giudicati. Può aiutare i ragazzi a dare nome a ciò che provano: rabbia, paura, senso di inadeguatezza.
Può accompagnarli a trasformare l’aggressività in energia creativa.
Perché dietro ogni rabbia, c’è un bisogno non ascoltato. Il coraggio di chiedere: “Come stai, davvero?”
C’è una domanda semplice che può cambiare tutto.
“Come stai, davvero?”
Una domanda che apre. Che non pretende. Che non offre subito una soluzione, ma uno spazio. Perché molti giovani non cercano risposte perfette. Cercano presenza. Cercano orecchie che non interrompano. Cercano cuori disposti a restare anche quando non capiscono. La rabbia come ponte, non come condanna. Etichettare i giovani come arrabbiati non serve a nulla. Serve decodificare quella rabbia. Capire cosa racconta. Cosa manca. Cosa implora. La rabbia, se ascoltata, può diventare dialogo. Se ignorata, può diventare danno. Se accolta, può essere l’inizio di un ponte tra generazioni. Perché ogni ragazzo che urla, in fondo, sta solo dicendo:
“Non lasciarmi solo con quello che sento”.