Femminicidi annunciati: cosa non funziona davvero nel sistema?

Lei aveva già denunciato. Aveva raccontato tutto: le minacce, le botte, il controllo, la paura. Aveva bussato alla porta delle istituzioni, aveva chiesto aiuto. Aveva detto: “Mi ucciderà”. E poi è successo. Ancora una volta. Un’altra donna. Un’altra vita. Un altro nome da aggiungere a una lista che non smette di allungarsi.

La chiamiamo “emergenza”, ma l’emergenza è qualcosa di improvviso. Qui non c’è niente di improvviso. C’è l’evidenza. C’è l’annuncio della tragedia. C’è un sistema che vede, sa, ma non agisce in tempo.

I segnali c’erano. Come sempre. I femminicidi raramente sono imprevedibili. La maggior parte delle vittime aveva già parlato. Aveva sporto denuncia. Aveva chiesto protezione. Aveva raccontato l’escalation della violenza. Eppure, qualcosa si inceppa. Si attende. Si sottovaluta. Si archivia. Come se le parole delle donne non bastassero. Come se servisse che lui provasse davvero a uccidere per crederle. Ma a quel punto, spesso, è troppo tardi.

Dove si rompe il meccanismo?

1. Nella sottovalutazione della minaccia. Molti uomini che poi uccidono erano già noti alle forze dell’ordine. Ma si minimizza. “È solo una lite familiare.” “Non ci sono prove concrete”. Il problema è che il rischio viene valutato con parametri legali, non psicologici. E la violenza domestica ha un suo linguaggio, una sua progressione. Ignorarla significa firmare una condanna silenziosa.

2. Nella lentezza burocratica. Tra la denuncia e la reale attivazione delle misure di protezione possono passare giorni, settimane. Tempo che, per una donna minacciata, può essere letale. Servono strumenti più rapidi, snelli, reattivi.

3. Nell’assenza di formazione. Non tutti gli operatori di giustizia, polizia, assistenza sociale sono formati per riconoscere i meccanismi della violenza di genere. Molti ancora colpevolizzano la vittima, la scoraggiano, le chiedono di “calmarsi”. Una donna che denuncia dovrebbe trovare uno spazio di accoglienza, non di giudizio.

4. Nella mancanza di rete. Le vittime sono lasciate troppo spesso sole. Non c’è una rete integrata tra tribunali, servizi sociali, centri antiviolenza, psicologi, strutture protette. Ogni pezzo agisce per conto suo. Ma una donna ha bisogno di essere protetta da un sistema che funziona, non da un labirinto.

Quando la libertà costa la vita. Molti femminicidi avvengono quando la donna trova il coraggio di lasciare.

Perché l’uomo violento non sopporta la perdita del controllo. E allora minaccia. Insegue. Spia. E, talvolta, uccide. La verità dura da digerire è che essere libere, oggi, può costare la vita. E questo è inaccettabile.

La colpa non è mai della vittima. Mai. Non perché è tornata. Non perché aveva paura. Non perché “stava ancora con lui”. La colpa è di chi fa violenza. E di un sistema che troppo spesso non riesce a fermarla in tempo.

Cambiare è possibile, ma serve volontà politica e culturale. Per fermare i femminicidi annunciati non bastano le commemorazioni. Servono leggi applicate davvero. Forze dell’ordine formate. Tribunali specializzati. Centri antiviolenza finanziati e con personale stabile.

Serve educazione affettiva nelle scuole, per prevenire prima che la violenza nasca. Ma soprattutto, serve credere alle donne. Ascoltarle. Agire. Subito. Ogni volta che una donna dice “ho paura”, il sistema dovrebbe rispondere: “Non sei sola. E non è troppo tardi”.

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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