Certe notizie arrivano come pugni allo stomaco. “Uomo uccide la compagna e si toglie la vita”. “Madre strangola il figlio e poi si suicida”.
“Omicidio-suicidio in famiglia: dramma della disperazione”.
Frasi che si ripetono nei titoli dei giornali. Che scivolano via come un copione già visto, già letto, già archiviato. Ma dietro quei titoli ci sono vite. Relazioni spezzate, silenzi troppo lunghi, dolori che nessuno ha saputo ascoltare. Dietro ogni omicidio-suicidio c’è una storia che implora di essere compresa, non per giustificare — ma per prevenire.
Un atto che unisce due gesti estremi. L’omicidio-suicidio è una delle manifestazioni più estreme della crisi psichica e relazionale. Due atti violenti, legati da un filo invisibile e devastante: il bisogno di controllo totale, la percezione distorta della realtà, una sofferenza psicologica che ha superato ogni soglia. Chi compie un gesto simile spesso non lo fa per odio, ma per disperazione.
Per un senso malato di “salvezza”, “punizione”, “chiusura”. In alcuni casi, si tratta di una vendetta estrema. In altri, di una forma contorta d’amore.
In tutti, di un grido che nessuno ha colto in tempo.
Chi sono gli autori di questi atti?
Non esiste un solo profilo.
Ma ci sono tendenze ricorrenti:
• Uomini che uccidono la partner o i figli e poi si suicidano.
Spesso mossi da gelosia, paura dell’abbandono, rabbia narcisistica.
La perdita del controllo sulla relazione scatena la volontà di distruggere tutto, sé compreso.
• Persone depresse, con disturbi psichici non curati, che vedono nel suicidio un’unica via d’uscita.
E coinvolgono altre vite in quel baratro, per paura di lasciarle “da sole”, o per una distorsione totale del senso della realtà.
• Genitori che uccidono i figli e poi sé stessi, convinti di “proteggerli” da un mondo vissuto come ostile, o da un fallimento percepito come irreversibile.
Ogni caso ha la sua dinamica. Ma il filo comune è la frattura interna,
un dolore che ha scavato troppo a fondo, e un’assenza quasi sempre totale di aiuto psicologico.
Il ruolo della fragilità psichica
Dietro questi atti c’è quasi sempre una sofferenza mentale non riconosciuta. Depressione maggiore, disturbi psicotici, stati dissociativi, personalità borderline o narcisistiche patologiche. Condizioni che, senza supporto, possono trasformarsi in mine emotive. E c’è anche l’analfabetismo emotivo,
la difficoltà a chiedere aiuto, a gestire la frustrazione, a contenere l’angoscia dell’abbandono.
Spesso, chi compie un omicidio-suicidio è una persona che non ha mai imparato a fallire, a perdersi, a lasciar andare. E che, davanti a una crisi, implode.
Il lato oscuro dell’amore e del possesso. In molti casi, l’omicidio-suicidio nasce dentro relazioni malate. Dove il confine tra amore e possesso è stato superato da tempo.
Dove l’altro non è più un essere libero, ma un’estensione di sé da controllare, trattenere, annientare se necessario. E se l’altro decide di andarsene, il crollo psichico è totale.
Perché la perdita non è vissuta come un evento della vita, ma come un affronto intollerabile. In questi casi, l’omicidio diventa l’ultimo atto di dominio. Il suicidio, il tentativo finale di fuggire dalla vergogna, dal dolore, dalla realtà.
La responsabilità collettiva: ascoltare prima che sia troppo tardi. Ogni omicidio-suicidio racconta anche un’assenza:
di rete, di ascolto, di intervento. Molti di questi gesti erano preceduti da segnali. Minacce, isolamenti, depressione, precedenti violenti, richieste d’aiuto inascoltate.
Segnali che, se presi sul serio, avrebbero potuto cambiare il finale. Per questo serve più cultura psicologica. Più formazione per le forze dell’ordine. Più accesso alla salute mentale. Più coraggio, da parte nostra, nel dire a chi soffre: “Ti vedo. Ti ascolto. Non sei solo”.
Non possiamo ignorare ciò che ci spaventa. L’omicidio-suicidio è una ferita collettiva. Ci costringe a guardare il lato oscuro dell’umano,
quello che vorremmo allontanare, negare, nascondere. Ma ignorare non è mai la soluzione. Solo guardando in faccia il dolore possiamo imparare a riconoscerlo prima che diventi tragedia. Solo parlando di questi temi possiamo costruire una cultura della prevenzione. Perché il vero antidoto alla violenza non è la punizione. È la presenza. La cura. La capacità di vedere — prima che sia troppo tardi.