Vivian è la mia amica aristocratica. Non nel senso metaforico, tipo “ha gusti raffinati” o “ama il jazz francese”. No, no. Lei è aristocratica vera. Possiede un titolo, un maniero (parzialmente in rovina, ma con un fascino decadente da film BBC), e un’aria perennemente perplessa che rende ogni suo commento una sentenza in stile regina madre.
Vivian vive in un mondo dove il tè si serve solo in porcellana finissima, lo zucchero non si mescola, si accenna, e i biscotti non si sgranocchiano, si degustano. Io, invece, vivo in un mondo dove la bustina di tisana resta nel bicchiere finché non affoga e i biscotti si mangiano a manciate nei momenti di crisi emotiva.
Eppure, siamo grandi amiche. Anzi, direi che proprio grazie a queste differenze, la nostra amicizia è diventata un piccolo miracolo diplomatico tra il popolo del gin tonic e la monarchia del Darjeeling.
Vivian è famosa per i suoi tè delle cinque. Un rituale che per me è sempre un’esperienza mistica e altamente ansiogena. Il primo invito mi arrivò con una lettera scritta a mano. Lettera. Sì, proprio con penna stilografica e sigillo in ceralacca. Io pensavo fosse un invito a un matrimonio medievale, invece era per “una merenda informale con tè e pasticcini”. Informale, diceva.
Il giorno dell’evento mi presentai con un sacchetto di muffin al cioccolato e il mio sorriso migliore. Lei mi aprì indossando un foulard di seta e una gonna che urlava Downton Abbey. Il mio sacchetto di plastica sembrava un affronto al Commonwealth. E i muffin? Troppo rustici, mi ha detto con gentilezza. Li abbiamo comunque serviti… al cane.
Il tè, invece, era un’esperienza extracorporea. Tre varietà diverse, ognuna con una storia più complicata del mio curriculum sentimentale. Il Darjeeling “di prima fioritura raccolto da mani esperte sulle colline himalayane”, il Ceylon “invecchiato in botti di sogni coloniali”, e il Rooibos “per i momenti di riflessione zen”. Io volevo solo un biscotto e magari un goccio di rum.
Durante il tè, il linguaggio cambia. Non si dice “ho sete”, si dice “gradirei un’altra tazza”. Non si dice “questi biscotti sono buoni”, si dice “questi pasticcini sono deliziosamente fragranti”. E non si rutta. Mai. Anche se hai appena ingoiato un sandwich al cetriolo che ti ha provocato una tempesta gastrica.
Vivian osserva tutto con l’occhio clinico di una duchessa in incognito. Una volta ha notato che ho usato il cucchiaino per girare lo zucchero in senso orario. Mi ha detto con tono diplomatico: “Interessante scelta direzionale, Pippa”.
Eppure, sotto quell’aria regale, Vivian è una delle donne più ironiche e autoironiche che conosca. Sa perfettamente di vivere in un mondo che non esiste più, ma lo fa con una grazia disarmante. E quando si rilassa – magari dopo due bicchieri di prosecco – ride come una ragazzina e racconta aneddoti scandalosi sulla nobiltà inglese, che farebbero impallidire Netflix.
Alla fine, i suoi tè delle cinque sono diventati per me un appuntamento sacro. Un momento in cui, anche solo per un’ora, lascio da parte il caos della vita, i pettegolezzi del villaggio, le app di incontri e le mie maschere viso. E mi sento un po’ più raffinata… anche se sotto il tavolo ho ancora i calzettoni di lana.
Perché l’eleganza vera, alla fine, è sapere stare a proprio agio sia con la porcellana fine che con la tazza sbeccata. E Vivian, con la sua aristocrazia 2.0, me lo ricorda ogni volta.