La verità è la luce

Da venerdì 20 gennaio 2023 al Teatrosophia debutterà “Tommy” di Giuseppe Manfridi per la regia di Vittorio Bonaccorsi. Giuseppe Manfridi è uno tra i maggiori drammaturghi contemporanei. “Tommy” è il titolo del monologo interpretato da Giuseppe Arezzi, giovane attore ma con un bagaglio di esperienza ormai consolidato. Infatti, Giuseppe Arezzi affronta con maturità uno dei temi più scottanti di questo periodo pandemico: il conflitto interiore con la propria solitudine e il senso claustrofobico che ne consegue.

Veniamo all’opera che sarà sicuramente un grande successo. Protagonista del monologo è Tommy, una giovane metafora della fragilità di una generazione che fa i conti con ciò che le è stato negato, primo fra tutti la possibilità di riscattarsi dalla bulimica assenza dei genitori. Assenza che, per paradosso, risulta ancora più evidente nel rapporto coatto a cui ci ha costretto una particella microscopica come il virus. Con questi è tornato in auge anche un altro fenomeno che negli anni passati era relegato soltanto alla società giapponese, quello degli “hikikomori” (lett. stare in disparte, ritirarsi, chiudersi), giovani che scelgono di scappare fisicamente dalla vita sociale. Una volta, da piccoli, ci si isolava costruendo capanne fatte di pietre e cartone o legno, per ritrovare un proprio mondo fatto di piccoli segreti, per dare sfogo alla sessualità appena sbocciata o per infrangere piccoli tabu. Quello di Tommy è un isolarsi a metà perché la sua capanna/seminterrato diventa una sorta di surrogato della sua mente, all’interno della quale rifugiarsi (per guarire?). Il buio è prossimo all’oscurità e alle tenebre, ma vuol dire anche non conoscere la verità, ignorare qualcosa. La verità invece è la luce. In questo contrasto perenne tra buio e luce, tra continue domande e risposte negate, Tommy struttura la sua anima e ne fa la propria casa. Un’anima sgabuzzino: in cui mettere tutte le cose che non vanno, che non piacciono o che piacciono ma sono vietate. Come una pentola a pressione il suo corpo risente di questa lotta e trova una valvola di sfogo in uno starnuto nervoso, quasi da animale. Egli si confessa in un finto dialogo o una specie di seduta psicanalitica con sé stesso, in una sorta di parossistico autodafé. Abbiamo intervistato il drammaturgo Giuseppe Manfridi che ci ha condotto all’interno di questa preziosa e affascinante opera.

  

Caro Giuseppe a breve ci sarà il debutto di un tuo nuovo lavoro: Tommy, ci racconti qualcosa?

È un testo che mi commuove. L’ho scritto poco più che ventenne, e di sicuro oggi non saprei scriverlo meglio, o in modo più giusto. Negli anni ho visto molte edizioni di Tommy ma questa di Giuseppe arriva a notevole distanza dall’ultima; ancora non l’ho vista, ma ne ho saputo cose bellissime. Posso dire, e non solo dunque sulla fiducia, ma anche da quanto trovato in rete e dalle recensioni, che ne so sono davvero orgoglioso. Mi sembra che Giuseppe Arezzi si sia calato in modo assoluto nel personaggio. Insomma, non vedo l’ora fi applaudirlo portandogli l’abbraccio dell’autore ‘ventiduenne’.

 Tommy chi è? 

Un ragazzo/fanciullo che trova solo nello sgabuzzino di caso il rifugio capace di tenerlo al riparo dalla particolare sindrome psicosomatica da cui è affetto, vale a dire uno starnuto compulsivo che lo affligge al ritmo torturante di uno ogni pochi secondi. Ed è perciò dall’interno dello sgabuzzino che potrà stabilire un rapporto più o meno lineare con l’analista che lo ha in cura.

C’è qualcosa di te nel protagonista è nella sua storia?

Non più di tanto. C’è sempre qualcosa di me nei miei personaggi, uomini o donne che siano, ma mai troppo. Il personaggio lo considero comunque parte fi una realtà esterna che ho bisogno di immaginarmi nello spazio attorno e non circoscritto in una dimensione introversa. Anche se devo ammettere che per un certo tempo i riverberi psicosomatici delle mie ansie non hanno fatto che aumentare la mia ansia generale. Un circolo vizioso.

Perché un monologo?

In realtà, non è esattamente un monologo. Come ho già detto, pur se invisibile, c’è un deuteragonista di cui si può intuire l’interazione con Tommy. L’analista a cui mi riferivo.

Come hai scelto l’attore che interpreterà Tommy?

È l’attore che ha scelto il personaggio. Un giorno Giuseppe è venuto a trovarmi raccontandomi lo spettacolo che avrebbe voluto fare e come, con debutto in Sicilia, e ho capito che avrebbe sarebbe stato in grado di realizzare qualcosa di eccellente. Sembra che sia andata proprio così. Senza dire che immediatamente a colpo d’occhio ho capito che avrebbe potuto essere un Tommy perfetto.

La solitudine che cos’è?

Una croce o una benedizione. Dipende da chi la vive e in quali circostanze. Per Tommy, malgrado il suo anelito verso il mondo e l’amore, la solitudine appare a tratti più come uno stato di beatitudine in grado di tenerlo lontano dalle tensioni da cui è afflitto all’interno della cerchia familiare.

Quante solitudini ci abitano?

Tante anime, tante diverse capienze! Ve ne sono alcune (di anime, intendo) che se ne possono consentire molte e che addirittura riescono a metterle in comunicazione l’una con l’altra. Quando accade, l’immaginazione si accende e in tal modo si può accedere alla più perfetta creatività. Altrimenti, se le solitudini sono poche, o una soltanto, ci si finisce incagliati e nulla ne viene, se non l’attesa di un soccorritore che venga ad aprire la porta. O per farci uscire, o per entrare a farci compagnia.

La pandemia ha aumentato le solitudini oppure le ha solo rivelate?

Terza ipotesi, quella che prediligo: ha insegnato a molti come mettere a frutto la propria.  Anche se questo ha significato un’esagerata fecondità nello scrivere romanzi, poesie e testi teatrali. Con relativa smania di volersi vedere pubblicati e messi in scena.

Perché qui la solitudine è associata al senso claustrofobico?

Per la particolare sintomatologia che ha quasi fatto di Tommy un caso mediatico. A voler essere più specifici, se il ragazzo non avesse la risorsa del suo sgabuzzino rischierebbe addirittura di morite sotto il flagello delle convulsioni. In qualche modo si tratta di una claustrofobia di necessità, quasi salvifica.

Che cosa è stato negato alla generazione di Tommy?

Quello che la cultura borghese è riuscito a negare insistentemente malgrado il succedersi di rivolte giovanili nel secolo scorso: l’indipendenza di Dioniso.

Purché, i genitori di Tommy, sono una bulimica assenza? Cosa significa?

Perché hanno demandato la cura del figlio a un accudimento vicario, ossia a quello dell’analisi. Senza dire che, con ogni probabilità, il padre è scomparso da tempo. Tommy, e questo è uno dei suoi massimi problemi, vive sotto l’egida della madre, e quando lui è fuori dello sgabuzzino c’è da pensare che, anzi, gli imponga l’opposto: una bulimica presenza.

Il covid ha insegnato davvero qualcosa oppure ha promosso la consapevolezza del vuoto e dello smarrimento?

Ha cambiato di segno alle città, rendendole tutte distopiche. Diciamo che ci ha fatto entrare in una dimensione drammaticamente fantascientifica, e dubito che tutto possa mai più tornare come prima.

I hikikomori un fenomeno in aumento che denunciano una particolare solitudine? Che cosa sono e cosa rappresentano?

Il micro vale il macro. Io credo che nel suo complesso il mondo, ormai tutto illuminato a vista, senza più luoghi remoti o segreti, abbia perso fascino. Vale la pena muoversi per scoprirlo? Lo si direbbe tutto qui, a disposizione di chiunque. L’umanesimo è morto. Non c’è più bisogno di raggiungere l’altro per interloquire. È talmente facile avviare un dialogo con chicchessia che quasi sembra non valerne più la pena. Il troppo facile sfizia, ma stanca presto.

Perché giovani che scelgono di scappare fisicamente dalla vita sociale?

A te sembra? Non ne ho molti esempi. Tuttavia, non può essere che un giovane ad avere questa voglia. Nel caso, per creare dell’altro. Cosa? Con l’illusione dell’età, un’altra forma di vita.

Quale messaggio vuoi inviare con il tuo lavoro?

Nessuno. Solo mostrare Tommy. Prima che lo scrivessi, non c’era, da allora in poi sì. E mi piace l’idea che venga conosciuto. Come persona a me cara, a cui confido che anche altri possano voler bene.

Cosa ti aspetti dal pubblico?

Esattamente quanto ho appena detto. Affetto per lui. Empatia. Comprensione.

Hai pensato di farne un manifesto di consapevolezza per la GenZ?

No, ma mi piacerebbe che ci pensasse chi lo interpreta. Ha più lui di me l’età giusta per farlo.

Andrete in tour?

Me lo auguro. Dipende dalla produzione.

Vuoi aggiungere altro?

Solo grazie!

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