Certe volte la follia non urla. Non corre nuda per le strade. Non porta il volto deformato dal male. A volte ha un sorriso gentile, un tono educato, uno sguardo quieto.A volte ti stringe la mano. Ti guarda negli occhi. Ti parla con voce calma. E poi, senza preavviso, colpisce. La figura dell’assassino ci inquieta perché ci somiglia. Perché spesso non è il mostro immaginato, ma un essere umano che ha varcato il confine invisibile tra il dentro e il fuori. Tra il contenere e l’esplodere. Tra la mente che tiene e la mente che cede.
E allora ci chiediamo:
“Ma come è possibile?”
“Non sembrava uno capace di…”
“Era una persona normale”.
Ma cos’è davvero normale, quando parliamo di mente umana?
La follia che si traveste da equilibrio. La realtà è che la follia – quella clinica, ma anche quella più sottile e sociale – non sempre si mostra in modo evidente. Spesso è mascherata. Anzi, sa mascherarsi bene. Può convivere con l’apparenza della quotidianità: il vicino di casa premuroso, l’impiegato modello, il padre affettuoso, la studentessa brillante. Eppure, sotto la superficie, si agitano tensioni, deliri, impulsi trattenuti. Un accumulo lento di dolore, rabbia, senso di esclusione, angoscia, disconnessione. Quando tutto questo non trova parola, ascolto, comprensione… può trasformarsi in gesto. In un gesto estremo, tragico, distruttivo.
L’assassino non nasce all’improvviso. Nessun delitto nasce nel vuoto. Ogni gesto omicida ha una storia. Un prima. Traumi. Umiliazioni. Dipendenze. Disturbi psichici non curati. A volte la vittima e il carnefice condividono lo stesso terreno di dolore, ma uno dei due si perde nella spirale. Eppure, in molti casi, nessuno se ne accorge. Perché l’assassino ha imparato a mimetizzarsi. A nascondere. A funzionare in superficie. Il volto (in)visibile della mente che frana. Ci sono assassini che agiscono in preda a un delirio.
Che sentono voci. Che credono di dover salvare il mondo, o punirlo.
Altri, invece, agiscono per vendetta, per rabbia narcisistica, per fame di potere, per un amore malato che si trasforma in distruzione. In entrambi i casi, il movente è umano. Ma la modalità è patologica. Un pensiero distorto, una percezione alterata, un’identità fragile o deviata. È la mente che, ferita o alterata, non regge più. E crolla. Trascinando con sé anche il confine sacro tra vita e morte. Guardare il male senza romanticizzarlo. Parlare di follia non significa giustificare. Significa comprendere. Perché solo comprendendo possiamo prevenire.
Solo ascoltando prima, possiamo evitare che il dolore si trasformi in sangue. La cronaca ci racconta delitti efferati. Ma raramente ci porta dentro quella mente. Raramente ci mostra il silenzio che li ha preceduti. I segnali ignorati. Le richieste inascoltate. Le crepe invisibili. La fragilità come terreno fertile per il male.
Dietro molti assassini non c’è il male assoluto. C’è una solitudine assoluta.
C’è una mente che ha smesso di sperare, o che non ha mai imparato a reggere la frustrazione, il rifiuto, l’abbandono. E allora colpisce.
Non per coraggio. Ma per disperazione. Per distorsione. Per vuoto.
Umanizzare per capire, non per assolvere. Dietro la maschera dell’assassino non c’è sempre un demone. Spesso c’è un essere umano ferito, fragile, disorientato. Che ha smarrito la strada. Che ha confuso la realtà con il delirio, l’amore con il possesso, la giustizia con la vendetta.
Riconoscere il volto della follia non ci rende più deboli. Ci rende più lucidi. Più capaci di leggere, prevenire, intervenire. Perché se vogliamo davvero evitare che altri crimini accadano, dobbiamo imparare a guardare anche quel volto. Anche se ci fa paura. Anche se ci somiglia.
Il vero coraggio non è condannare il mostro. È riconoscere l’uomo che è diventato tale. E chiedersi: quando ha iniziato a perdersi? E perché nessuno, prima, lo ha davvero visto?