La mattina sembrava uguale a tutte le altre. Un uomo, Mohamed Naceur Saadi, usufruisce di un permesso di due ore dagli arresti domiciliari. Un diritto previsto dalla legge. Ma in quelle due ore, la legge si trasforma in una sentenza.
Samia Ben Rejeb Kedim, 46 anni, madre, donna libera, viene accoltellata nel suo appartamento a Udine. A ucciderla è l’uomo da cui si era separata, che aveva denunciato, da cui si era protetta. Invano.
Pochi minuti dopo, l’uomo fugge in macchina. Mezz’ora più tardi, si schianta a tutta velocità contro un tir, forse volontariamente. Muore sul colpo.
E con lui muore anche la possibilità di processare il colpevole. Di guardarlo in faccia. Di avere risposte.
Questo non è un semplice femminicidio. È una dichiarazione di guerra.
Non solo a Samia, ma a tutte le donne che decidono di non essere più proprietà.
L’uomo non l’ha uccisa per amore. L’ha uccisa per potere.
Perché lei aveva osato lasciarlo, denunciare, vivere.
E poi, in un gesto finale, non ha scelto di sparire in silenzio.
Ha scelto la morte pubblica, spettacolare, rischiosa. Ha trasformato la sua fuga in un’ultima minaccia.
Come se volesse dire: “Se non posso averla, distruggo tutto, anche me stesso. E forse anche chi mi sta davanti.”
Quando una donna muore per mano dell’uomo che diceva di amarla, la domanda che resta è sempre la stessa: perché?
Ma questa volta le domande si moltiplicano:
• Perché era libero di muoversi, se era pericoloso?
• Perché il braccialetto elettronico non ha funzionato da barriera?
• Perché la protezione ha fallito?
Samia aveva già subito. Aveva già denunciato. Eppure, anche lei è stata lasciata sola, come troppe altre.
Saadi non ha solo agito con rabbia. Ha agito con una logica da predatore del patriarcato.
Il femminicidio-suicidio è una delle forme più radicali del controllo:
prima si uccide la donna che osa scegliere, poi ci si annienta, in un gesto disperato ma dominato fino all’ultimo.
Il suicidio non è un rimorso. È l’ultimo atto di potere.
Un modo per restare in scena. Per sottrarsi al giudizio degli altri, ma imprimere per sempre il proprio sulla vittima.
Le leggi non bastano se non vengono applicate con rigore.
I divieti di avvicinamento non bastano se non si accompagnano a vigilanza attiva.
E ogni volta che un uomo sotto misura cautelare riesce a uccidere, è lo Stato che deve chiedere scusa.
Non bastano le panchine rosse, i post, gli hashtag.
Serve una rivoluzione culturale che cominci dalla scuola, dalla famiglia, dai tribunali.
Serve che la parola “libertà” non sia una condanna a morte per chi la pronuncia.
Samia era una donna. Una madre. Una voce che aveva deciso di non abbassarsi.
È stata messa a tacere da una cultura che ancora confonde l’amore con il possesso.
Ma il suo nome oggi resta. Resta come simbolo di ribellione, di scelta, di coraggio.
Per ogni Samia uccisa, ci sono centinaia di donne vive che lottano ogni giorno per non diventare statistiche.
E per loro, raccontare, ricordare, denunciare è già un atto di giustizia.









