Quando si parla di serial killer, la mente corre subito al sangue, alle indagini, ai processi che hanno scosso l’opinione pubblica. Ma dietro la cronaca si nasconde qualcosa di più profondo: una grammatica del male, un insieme di archetipi che ritornano come maschere in un rituale oscuro. I serial killer, pur nelle loro differenze, incarnano figure ricorrenti, simboli universali che attraversano culture e tempi, rivelando un volto ancestrale della violenza.
Carl Gustav Jung parlava di archetipi come immagini primordiali radicate nell’inconscio collettivo. Allo stesso modo, i profiler e i criminologi hanno individuato schemi psicologici e comportamentali che si ripetono nei serial killer. Non si tratta solo di classificazioni tecniche: sono narrazioni del male, modelli che ci aiutano a comprendere la logica nascosta dietro l’orrore.
L’archetipo del visionario
Il visionario è colui che uccide spinto da voci, allucinazioni, deliri religiosi o mistici. Crede di obbedire a una forza superiore. È la personificazione della follia che si traveste da missione sacra. Ogni delitto diventa per lui un atto rituale, un’offerta, una purificazione. Non si percepisce come colpevole: pensa di essere lo strumento di un disegno più grande.
L’archetipo del missionario
Il missionario non uccide per delirio, ma per convinzione ideologica. Si autoproclama “giustiziere” e sceglie le sue vittime perché rappresentano un gruppo sociale, una categoria o un comportamento che disprezza. Nella sua mente, elimina ciò che ritiene impuro. È un archetipo che incarna la distorsione del potere morale: chi si erge a giudice assoluto, trasformando il pregiudizio in condanna capitale.
L’archetipo dell’edonista
L’edonista uccide per piacere. La sua forza è la brama di sensazioni: eccitazione sessuale, adrenalina, dominio. Per lui il delitto è un’esperienza da ripetere, un viaggio in cui la vittima è solo un mezzo per soddisfare un bisogno insaziabile. È la maschera più inquietante, perché la violenza diventa puro intrattenimento interiore, una droga che brucia ogni freno.
L’archetipo del dominatore
Qui il motore è il controllo. Il serial killer dominatore non si limita a sopprimere la vittima: la vuole piegare, umiliare, rendere strumento del proprio potere. È un archetipo che affonda le radici nel desiderio di onnipotenza, nella necessità di trasformare l’altro in oggetto. Il piacere non è nell’uccidere, ma nell’assoggettare. Ogni crimine diventa un teatro sadico in cui l’assassino recita il ruolo di dio oscuro.
Questi archetipi non sono compartimenti stagni: spesso si intrecciano, si contaminano. Un visionario può avere tratti edonistici, un missionario può trasformarsi in dominatore. La mente criminale è un labirinto, e gli archetipi sono solo torce che illuminano tratti del percorso.
Ma perché ci affascinano tanto? Forse perché, in fondo, questi modelli sono specchi distorti della nostra psiche. Il visionario è l’ombra della fede, il missionario l’ombra della giustizia, l’edonista l’ombra del desiderio, il dominatore l’ombra del potere. Ci spaventano perché parlano di noi, delle nostre pulsioni primitive, di ciò che reprimiamo per vivere in società.
Osservare gli archetipi del male significa dunque esplorare non solo i killer, ma anche i nostri limiti. Significa riconoscere che il crimine non nasce nel vuoto, ma si radica in ossessioni, ideologie, desideri che appartengono, in forma embrionale, all’essere umano.
E allora la scena del crimine, i profili psicologici, le indagini diventano più di un lavoro investigativo: diventano un viaggio negli abissi della mente. Un viaggio che inquieta e attrae, perché ci costringe a confrontarci con il lato oscuro che abita ogni archetipo.









