La bara bianca, i palloncini gonfiati di rabbia e di dolore, le lacrime di chi non sa darsi pace. A Succivo, nel cuore della Campania, la chiesa della Trasfigurazione era piena. Ma il vuoto era ovunque. Un vuoto che ha il nome di Davide Carbisiero, 19 anni, freddato a colpi di pistola in una sala slot a Cesa, nella notte tra il 12 e il 13 aprile.

Un omicidio che non ha il volto di uno sconosciuto. Ma quello – atroce, inspiegabile – di un amico di sempre. Un ragazzo di 17 anni, conosciuto da Davide, cresciuto con lui. Ora in carcere. Accusato di avergli sparato. Di avergli tolto la vita. Forse per errore. Forse per rabbia. Forse per un impulso che non si è potuto più fermare.
“Ciao Daddà”: una comunità in ginocchio
Daddà, così lo chiamavano tutti. Uno di quei ragazzi che sanno farsi volere bene, che lasciano il segno in chi li incontra. Ai funerali, gli amici hanno srotolato striscioni con il suo sorriso: “L’infamia non cancella la tua risata.” Ma la verità è che quel colpo ha spento molto più di un sorriso. Ha trafitto un’intera comunità.
Perché quando un ragazzo muore per mano di un altro ragazzo, non è solo un delitto. È uno specchio.
Uno di quelli che riflettono tutte le crepe che non vogliamo vedere.
Un colpo, un video, una fuga
La scena è rapida. Violenta. Devastante. Un litigio, uno sparo, Davide a terra. E poi la fuga del presunto killer, ripresa da una telecamera. Il ragazzo scappa. Corre. Forse piange. Forse non capisce. Forse lo capisce benissimo, ma non sa come rimediare.
“Non volevo ucciderlo, era mio amico”, avrebbe detto ai carabinieri. Ma le immagini lo mostrano mentre si allontana da via Atellana, lasciandosi dietro un corpo, una famiglia, una vita.
Tra adolescenza e armi: l’inconcepibile diventato reale
La pistola, la lite, la morte. Una triade che non dovrebbe mai riguardare due adolescenti. Ma che invece racconta quanto stia diventando fragile il confine tra conflitto e tragedia.
Oggi molti ragazzi crescono senza una vera alfabetizzazione emotiva. Non sanno nominare la frustrazione, gestire la rabbia, sopportare l’umiliazione. E allora agiscono. Con l’impulso. Con la forza. Con le armi, se ne hanno accesso.
E accade, così, che un diverbio si trasformi in lutto. E che un’amicizia finisca in una sala slot, tra fumo, luci fredde e sangue.
Una generazione che non ha colpe, ma ha bisogno
Sociologi, psicologi e criminologi parlano da tempo del disagio giovanile sommerso. Ma questa non è solo una storia di disagio. È una chiamata collettiva alla responsabilità.
Chi ha accompagnato questi ragazzi fino a qui?
Chi li ha ascoltati, contenuti, educati a riconoscere i limiti?
Dove sono gli adulti, le istituzioni, le comunità?
Perché le risposte devono arrivare dopo la morte, e non prima della rabbia?
Cesa e Succivo: periferie senza mappe
Questa tragedia si consuma in una provincia che non è un ghetto, ma nemmeno un’oasi.
È un territorio in cui la marginalità si nasconde sotto la normalità, dove le sale giochi diventano luoghi di aggregazione, i bar sono il rifugio di chi non sa dove andare, e la violenza diventa un linguaggio conosciuto.
In contesti così, la noia e la rabbia si mescolano, e la vita assume un valore troppo relativo. E la morte, a volte, sembra l’unico modo per farsi notare.
Cosa possiamo fare?
Non basta commuoversi. Non basta indignarsi. Serve agire.
1. Insegnare le emozioni
Serve portare l’educazione affettiva nelle scuole, nei centri giovanili, nei luoghi dove i ragazzi si incontrano. Non come un’attività opzionale, ma come un pilastro educativo. Parlare di rabbia, frustrazione, vergogna, empatia.
2. Presidiare i luoghi reali
I territori a rischio devono diventare spazi vissuti da adulti responsabili: educatori, psicologi, operatori. Serve una rete di presenza e ascolto.
3. Regolare i luoghi della deriva
Sale slot, bar notturni, spazi di degrado devono essere monitorati, regolati, rieducati. Non possono essere lasciati all’assenza, all’ombra.
4. Onorare la memoria delle vittime
Davide non può essere dimenticato. La sua morte deve diventare motore di prevenzione, occasione di cambiamento, strumento di consapevolezza. Progetti educativi, campagne sociali, percorsi di testimonianza: la sua storia deve continuare a parlare.
Conclusione: non lasciamo soli i nostri ragazzi
Davide non è morto solo per una pistola. È morto perché intorno a lui mancava un argine. Mancava una rete. Mancava un adulto in quel momento, in quel posto, con quella parola giusta.
Il 17enne che ha premuto il grilletto ha colpe, certo. Ma è anche figlio di una solitudine sociale, educativa e affettiva. E ogni volta che un ragazzo cade, anche noi – come adulti, come sistema, come Paese – perdiamo un pezzo della nostra umanità.
Non aspettiamo il prossimo funerale per domandarci cosa stiamo sbagliando.









