Abbiategrasso, la lama e il silenzio: la morte di Mohamed e il grido di una periferia dimenticata

Nella notte tra venerdì e sabato, ad Abbiategrasso, il tempo si è fermato per sempre per Mohamed Elsayed Elsharkawy, ventunenne egiziano, accoltellato in una pozza di sangue sotto i porticati grigi di via Fusè, un angolo di periferia milanese dove da anni il degrado urbano cammina a braccetto con la violenza.

Mohamed è morto all’ospedale di Legnano, dopo un disperato intervento chirurgico che non è riuscito a strapparlo alla morte. Ventun anni appena. Per seicento euro.

Quel denaro, raccontano gli inquirenti, gli era stato consegnato da alcuni ragazzi italiani – tre fratelli e un loro amico – per un carico di hashish che però non era mai arrivato. Un debito che, in un altro quartiere, forse si sarebbe risolto con una discussione. Lì, invece, dove il diritto cede il passo alla vendetta e la rabbia diventa codice d’onore, il debito si è risolto nel sangue.

Era bastato un piccolo schiaffo dato a un “cavallino”, un giovanissimo spacciatore legato a Mohamed, nel pomeriggio. Una scintilla che aveva anticipato la tempesta.

Poi, ore dopo, il branco lo ha raggiunto sotto i portici maledetti, e qualcosa è degenerato. Forse quattro, forse cinque contro uno. Forse la lama nelle mani di qualcuno che oggi si nasconde dietro il muro del “non volevo”.

Ora i giovani italiani sono stati fermati con l’accusa di omicidio volontario aggravato in concorso. I volti sono quelli della quotidianità smarrita dei casermoni: poco più che ragazzi, cresciuti tra il cemento, la solitudine e il veleno sottile di un mondo senza regole vere, dove la droga è più presente della scuola e l’onore si misura a pugnalate.

Secondo la difesa, non era loro intenzione uccidere. Ma nella casbah di Abbiategrasso basta poco perché la furia prenda il sopravvento. Perché i codici tribali della strada sono più rapidi della legge, e più taglienti di qualsiasi ragionamento.

Intanto, gli investigatori indagano su un possibile altro aggressore. E su un altro episodio inquietante: poco dopo l’omicidio, un uomo di 56 anni è stato aggredito nella stessa via, forse per rubargli l’auto e fuggire. Un dettaglio che pesa, e conferma il clima di caos e paura che in quelle ore impregnava l’aria.

In queste strade, la vita vale poco.

Mohamed non era un santo, lo sanno tutti. Ma non era nemmeno solo il suo errore, quella sera. Era il prodotto di una marginalità troppo a lungo ignorata, di una gioventù bruciata dove la rabbia, il risentimento, il bisogno di rispetto si pagano sempre troppo cari.

Tra gli amici di Mohamed ora serpeggia la voglia di vendetta. Italiani contro egiziani, bande contro bande. Il pericolo di una nuova spirale di sangue è reale.

Per questo, forse, il minuto di silenzio indetto in piazza Castello, vale più di mille parole: non solo per commemorare una giovane vita spezzata, ma per chiedere, urlare, pretendere che il silenzio delle istituzioni finisca. Che non si aspetti la prossima vittima per accorgersi di una periferia che da troppo tempo implora riscatto.

Mohamed è morto per 600 euro.

Ma se non cambiamo il nostro modo di vedere queste vite invisibili, se non torniamo a costruire educazione, comunità, legami umani veri,

domani toccherà a un altro ragazzo.

E noi ci sorprenderemo ancora. Ipocritamente. Inutilmente.

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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