Nel cuore della campagna emiliana, tra i campi coltivati di Novellara, è maturata una delle storie più dolorose e simboliche degli ultimi anni. La storia di Saman Abbas non è solo cronaca nera: è la voce di una ragazza che ha detto “no” e che per quel “no” ha pagato con la vita. È il racconto di un conflitto tra culture, tra generazioni, tra libertà e controllo. È un processo collettivo che interroga tutti noi.

Il giorno in cui Saman è scomparsa
È la notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021. Saman Abbas, diciotto anni, scompare nel nulla. Viveva con la famiglia, di origine pakistana, in una casa non lontana da un’azienda agricola dove il padre lavorava. La sua sparizione non è casuale, né improvvisa. È il punto di arrivo di un conflitto che durava da mesi.
A dare l’allarme è il suo fidanzato, Saqib, l’unico che conoscesse davvero le sue paure. Poche ore prima, la ragazza gli aveva inviato un messaggio vocale: “Se non mi senti entro due giorni, chiama la polizia.” Aveva sentito i suoi genitori parlare di un piano. Aveva paura.
Una ribellione silenziosa
Saman era arrivata in Italia nel 2016. Aveva abbracciato la scuola, la libertà, i jeans, l’amore. E soprattutto aveva rifiutato un matrimonio combinato con un cugino in Pakistan. A 17 anni si era già rivolta ai servizi sociali. Aveva denunciato i genitori per maltrattamenti, per imposizione del velo, per il tentativo di costringerla a un’unione non voluta.
Era stata collocata in una comunità protetta. Ma l’11 aprile 2021 era tornata a casa, forse convinta dalle promesse della madre: “Non ti obbligheremo più a nulla.” Una promessa che si rivelerà una trappola.
Le prime ombre
Il 5 maggio i carabinieri si presentano a casa degli Abbas. La famiglia sostiene che Saman sia in Pakistan con loro. Ma né lei né i suoi documenti sono in partenza. Le immagini delle telecamere mostrano i genitori partire da soli all’aeroporto di Malpensa. La verità inizia a emergere. E a fare più paura della menzogna.
Un video di sorveglianza mostra tre figure incappucciate, con una pala, un piede di porco e un secchio. Sono lo zio Danish Hasnain e i cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq. Stanno scavando. La buca che accoglierà il corpo di Saman il giorno dopo.

Il testimone più fragile
Il fratello minore, 16 anni, è la chiave di volta. Fuggito anche lui con i cugini, viene trovato e portato in una struttura protetta. Racconta. Ricostruisce quella notte. Dice che ci fu una lite. Che Saman voleva solo andarsene. Che lo zio la strangolò. Che il padre piangeva, dopo. Ma nessuno la salvò.
La lunga caccia alla verità
Lo zio Danish viene arrestato a Parigi. I cugini, in Spagna e in Francia. I genitori fuggono in Pakistan. Ma la giustizia li raggiunge. Il 15 novembre 2022 viene arrestato il padre, Shabbar Abbas. E pochi giorni dopo, in un casolare vicino a Novellara, vengono trovati dei resti umani.
Il 4 gennaio 2023 arriva la conferma: sono di Saman. A riconoscerla è un dettaglio dentale. Una ferita sull’osso ioide conferma lo strangolamento. La verità ha un corpo, finalmente. Ma non ha ancora pace.
Il processo: un’intera famiglia sotto accusa
Nel dicembre 2023 arriva la prima sentenza: ergastolo ai genitori, 14 anni allo zio, assoluzione per i cugini. Ma la vicenda non è finita. L’appello cambia tutto: il 18 aprile 2025, la Corte d’Assise d’Appello di Bologna condanna anche i cugini all’ergastolo, e rivede la pena dello zio a 22 anni. Ora la responsabilità è chiara: Saman è stata uccisa da tutta la famiglia.
Un simbolo di libertà
Il Comune di Novellara le assegna la cittadinanza onoraria. Non è solo un gesto formale. È un segnale forte: Saman è il volto di tutte le ragazze che cercano di vivere libere, in contesti familiari che non accettano l’autonomia femminile.
Il suo funerale si svolge solo nel marzo 2024, quasi tre anni dopo la sua morte. Il fratello minore, il primo a rompere il muro dell’omertà, pronuncia parole semplici e strazianti: “Mi mancherai ogni giorno”.

Oltre la cronaca: il significato più profondo
Il caso di Saman non è solo l’ennesimo femminicidio. È un fallimento collettivo. È l’urlo di una ragazza che ha chiesto aiuto, che ha fatto tutto quello che poteva fare, e che è stata tradita nel luogo che avrebbe dovuto proteggerla: la casa.
È il riflesso di una cultura patriarcale ancora viva, dove la libertà di una donna è vista come una vergogna, una minaccia. È l’emblema di come la famiglia, quando diventa gabbia, può trasformarsi nel primo luogo di morte.
Conclusione: la voce che non muore
Saman ha detto “no”. Ha detto no a un destino imposto. No a un’identità costruita da altri. No a un amore che non era amore, ma possesso. E con il suo “no”, ha parlato per tante. Ora tocca a noi trasformare la sua memoria in protezione, giustizia, ascolto. Perché non ci siano altre Samane da ricordare. Ma ragazze da salvare. Prima che sia troppo tardi.









