Nessuna resta indietro – La marcia silenziosa e potente del Tenente Colonnello Giulia Cornacchione

Ci sono battaglie che si combattono in silenzio. Con il cuore in gola e le cicatrici sotto la pelle.  Ci sono guerre invisibili che si affrontano a mani nude, armate solo di coraggio, determinazione e amore. Giulia Cornacchione è un Ufficiale dell’Esercito Italiano. Una donna in divisa. Una sorella in armi. Ma prima ancora è una donna che ha guardato in faccia la paura, che ha conosciuto la fragilità e ne ha fatto forza. Dieci anni fa, il suo corpo ha sussurrato qualcosa che nessuno vorrebbe mai sentire: “Hai un tumore al seno”. Da quel giorno, la vita di Giulia è cambiata per sempre, ma non si è mai arresa. Ha combattuto, ha amato, ha sorriso. E ha trasformato la sua ferita in missione.

    

In questa intervista, Giulia ci accompagna dentro il cuore della sua esperienza. Ci parla della Race for the Cure, della sorellanza che unisce le donne in rosa, delle lacrime versate, degli abbracci stretti, delle vittorie piccole e immense. Ci racconta cosa significa portare una divisa e, insieme, portare una storia da condividere.  È un racconto che commuove, che scuote, che fa riflettere. Ma soprattutto è un inno alla vita, alla prevenzione, alla potenza della solidarietà.

Perché, come dice Giulia: “nessuno deve rimanere indietro”.  E questa è la sua marcia. La sua voce. La sua rivoluzione gentile.

Ciao Giulia. Finalmente riusciamo a parlarne insieme. Vuoi raccontarci da dove nasce il tuo coinvolgimento con la Race for the Cure?

Ciao Barbara, eccomi qui. Ce l’abbiamo fatta. Rispondere alle tue domande non è facile, perché parlare di certe cose a volte fa ancora un po’ male… e poi, quando comincio, divento un fiume in piena. Tutto è cominciato dieci anni fa, quando ho ricevuto una diagnosi di tumore al seno. Nel 2016, quasi alla fine delle terapie, ho scoperto la Race for the Cure. Era una luce. Un modo concreto per sostenere la ricerca. Ho partecipato con la mia famiglia, ma soprattutto con le mie sorelle in armi, le colleghe di corso. Donne incredibili che non mi hanno mai lasciata sola, nemmeno per un secondo.  Camminare insieme ogni anno è diventata la nostra tradizione. Ma nel 2022 tutto ha assunto un significato ancora più profondo. Era da poco mancata Francesca, una ragazza della mia caserma, una madre, una guerriera. Quell’anno ho creato una squadra per ricordarla. Nessuna ambizione, solo un gesto d’amore. E invece… nel giro di dieci giorni eravamo più di 800. Ho capito che non era solo memoria. Era anche missione. Tenere vivo il ricordo, certo. Ma anche gridare l’importanza della prevenzione e raccogliere fondi per la lotta. Perché insieme, davvero, si può fare la differenza.

Quanto è importante, secondo te, che le Forze Armate si impegnino attivamente in iniziative come questa?

L’Esercito è da sempre in prima linea anche su questi fronti. Ovunque, in Italia, ci sono eventi di beneficenza organizzati da noi. Partecipiamo, promuoviamo, sosteniamo. È nel nostro DNA. Siamo al servizio del Paese. E mettersi al servizio significa anche questo: esserci. Per il prossimo. Per chi soffre. Per chi lotta.

Cosa rende la Race for the Cure così speciale anche per chi partecipa per la prima volta?

Una ragazza della squadra ha detto una frase bellissima: “La Race è uno stato d’animo”.

Non è solo una corsa, una camminata, una manifestazione. È un’onda. Un’energia. Un abbraccio collettivo. Ti senti parte di qualcosa di grande. E anche solo promuoverla, parlarne, ti fa stare bene. Ti ricarica. Ti lega alle persone, anche quelle che incontri per caso… perché senti che parlate la stessa lingua. Quella del cuore.

La maglia rosa è il simbolo delle donne che hanno affrontato il tumore. Che significato ha per te?

Potentissimo. È un messaggio. È coraggio. È speranza. Quando vedi quante siamo, capisci che non sei sola. Che si può vincere. E allo stesso tempo, è uno specchio. Ti riconosci negli occhi di un’altra donna rosa, anche senza conoscerla. Sai quello che ha passato, perché hai attraversato lo stesso inferno. Eppure, siamo lì. A testa alta. A camminare. Insieme.

Hai vissuto molti momenti toccanti in questi anni. Quali porti nel cuore?

Due in particolare.  Il primo è la mia prima Race. Non sapevo cosa aspettarmi. E invece mi sono trovata in mezzo a migliaia di persone che lottavano, gioivano, speravano. È stata una festa dell’anima.  Il secondo è stato il palco del 2022. Ci hanno premiate come squadra iscritta online più numerosa. Una squadra nata per ricordare Francesca. Nessuna ambizione, solo amore. Quando mi hanno chiamata ho capito: ce l’avevamo fatta. Avevamo lasciato il segno. Avevamo trasformato il dolore in qualcosa di grande.

E ho ripensato a una frase che mi porto dentro da quando indosso l’uniforme: “Nessuno resta indietro”.

Cosa ostacola ancora, secondo te, la prevenzione?

Non la cultura. L’emozione. Il pensiero che “capita sempre agli altri”. L’ho pensato anche io. Ero giovane, avevo appena partorito, facevo sport, vita sana, niente fumo, nessuna familiarità… eppure.  Invece è capitato. A me. Da un giorno all’altro. Per questo racconto la mia storia: per spingere anche solo una donna a fare un controllo in più. Un’ecografia può salvarti la vita. Non è invasiva. Non fa male. Ma può fare tutta la differenza del mondo.

All’interno dell’ambiente militare c’è attenzione verso il tema della prevenzione?

Sì, e sempre di più. Ogni anno veniamo sottoposti a screening medici e visite accurate.  Ma non solo: nelle caserme si organizzano incontri informativi, si parla di prevenzione. Io stessa tra pochi giorni andrò alla Scuola Ufficiali dell’Esercito a Torino per raccontare la mia esperienza. E questo dice tutto: la prevenzione non è solo una parola. È una priorità.

Che cos’è, per te, una Donna in Rosa?

Una donna coraggiosa. Che ha affrontato il dolore… e ha scelto di non nascondersi.   Non è facile. Tante preferiscono non parlarne. Ma chi lo fa… crea legami. Accende luci. È un filo invisibile, quello che ci unisce. Ma fortissimo e reale.

Hai incontrato storie che ti hanno lasciato un segno?

Sì. Due in particolare: Paola e Simona. Due donne straordinarie che convivono con un tumore al seno metastatico. Sempre col sorriso. Sempre con una forza disarmante.  Spesso mi chiedo: “E se fossi stata io al loro posto?”. Non so rispondere. Ma so che le ammiro immensamente. Sono giganti gentili. E mi insegnano ogni giorno a non arrendermi.

Che messaggio lancia una donna in rosa solo camminando?

Un messaggio fortissimo. Di vita. Di coraggio. Di speranza. La malattia si può affrontare. Si può curare. Sempre di più. Ma per farlo… bisogna parlarne. Senza vergogna. La malattia non è una colpa. È una prova. E condivisione è già parte della guarigione.

L’Esercito ha sostenuto e rilanciato il tuo impegno. Che significato ha avuto per te?

Enorme. Quando i vertici mi hanno chiamata per dire: “Facciamola diventare la squadra dell’Esercito”, ho capito che qualcosa stava cambiando davvero. Non solo avevamo unito le forze… ma avevamo unito l’intera Forza Armata. Da nord a sud. Anche nei contingenti all’estero. Un messaggio che è arrivato ovunque.

In che modo la Race unisce sport, salute e solidarietà?

In modo perfetto. Fare sport fa bene al corpo. Farlo insieme fa bene all’anima. E farlo per una causa comune… cambia tutto. Diventa un atto d’amore.

Quali sono i prossimi obiettivi?

Come Capitano della Squadra dell’Esercito, mi sento onorata e motivata. Stiamo lavorando per l’evento dell’11 maggio a Roma, ma anche per sostenere le edizioni a Caserta, Bari, e tante altre città. Il supporto cresce. E io sono certa: possiamo fare sempre di più.

Cosa vorresti dire alle donne che oggi affrontano una diagnosi di tumore?

Che non sono sole. Che si può guarire. Che è un percorso duro, fatto di salite e discese… ma che vale la pena combattere. Ogni contributo è importante. Ogni voce conta. Ogni passo è un passo in più verso la vita.

Le tre parole che useresti per descrivere la Race?

Terapia: perché per me lo è stata, lo è ancora. Unione: perché mi ha legata in modo indissolubile a donne, soldatesse, amiche. Solidarietà: perché è un’onda. Una carezza collettiva. Un grido d’amore.

La voce di Giulia Cornacchione, del Tenente Colonnello, Giulia Cornacchione, non è solo il racconto di una sopravvissuta.  È il battito di un cuore che ha attraversato la tempesta, ed è tornato a battere più forte. È il suono di un passo che non si è mai fermato, nemmeno quando tutto sembrava crollare.  In ogni parola, c’è una scelta: quella di non voltarsi dall’altra parte. In ogni gesto, c’è un messaggio: che il dolore condiviso diventa speranza. E in ogni camminata della Race for the Cure, c’è un esercito di donne e uomini che si tengono per mano.  Questa non è solo la storia di una donna in rosa. È la storia di un esempio. Di un Esercito che si unisce, che ascolta, che agisce. È la prova che anche dentro una caserma può nascere una rivoluzione fatta di solidarietà, prevenzione, umanità. Giulia non ha scelto quello che le è accaduto. Ma ha scelto come viverlo. E ha trasformato la malattia in missione, la missione in squadra, la squadra in famiglia. Ora quella famiglia marcia ogni anno, ogni giorno, per chi non c’è più, per chi combatte, per chi ancora non sa. E cammina, cammina sempre. Perché c’è una promessa che non va mai dimenticata:

Nessuna resta indietro. Nessuno resta solo”.

E finché ci sarà anche solo una donna da salvare, questa storia continuerà a farsi voce, onda, vita.

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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