Milano si è svegliata con un silenzio diverso il giorno dopo Pasqua. Un silenzio tagliente, pesante, come il vuoto lasciato da una vita spezzata.
Nel cuore elegante della città, tra palazzi liberty e giardini segreti, la villetta di via Randaccio custodiva un segreto tragico: il corpo senza vita di Angelito Acob Manansala, 61 anni, collaboratore domestico, uomo discreto e laborioso. A strappargli l’ultimo respiro sarebbe stato Dawda Bandeh, 28 anni, giovane migrante gambiano già noto alle forze dell’ordine. Non un omicidio premeditato. Non una vendetta. Non una passione. Solo un incontro fatale tra due solitudini. Due solitudini diversissime, eppure entrambe invisibili.
Il furto degenerato
Bandeh, raccontano le telecamere, scavalca il muretto della villa alle 8:38 del mattino. Ha appena lasciato la caserma dei carabinieri, dove era stato fotosegnalato per un precedente tentativo di violazione di domicilio. Non ha una casa, non ha un lavoro, forse non ha più nemmeno una meta. Entra nella proprietà privata mosso, sembra, dalla fame e dal bisogno. Cerca cibo, denaro, forse un rifugio.
Ma qualcosa va storto.
Angelito, rientrato da una passeggiata con i cani, lo sorprende. Una colluttazione, qualche oggetto rovesciato, segni di lotta, sedie spostate. Poi, il silenzio. Il domestico viene soffocato. La morte sopraggiunge lenta, crudele. Il suo corpo verrà ritrovato molte ore più tardi, disteso a pancia in giù sul pavimento della camera da letto.
La scena muta del crimine
Dopo l’aggressione, Dawda non fugge. Rimane. Mangia, si cambia d’abito, si riposa. Indossa i pantaloni dell’inquilino israeliano, ripiega i suoi jeans in un armadio come se volesse azzerare la propria identità, come se, almeno per un giorno, volesse diventare qualcun altro. La freddezza con cui si muove nell’appartamento, rubando denaro e oggetti, contrasta con il suo racconto confuso durante l’interrogatorio: “Quando mi sono svegliato, l’ho trovato già morto… non so cosa sia successo”.
Ma il giudice non crede alla sua versione. Gli indizi, le immagini di videosorveglianza, il comportamento lucido dopo l’aggressione raccontano un’altra storia. Una storia di consapevolezza. Di freddo opportunismo. O forse di una mente ormai troppo compromessa per distinguere il bene dal male.
Dawda Bandeh: una vita ai margini
Sbarcato in Italia a 15 anni, Dawda ha attraversato un’esistenza fatta di promesse mai mantenute e integrazioni fallite. Un permesso di soggiorno, qualche lavoro saltuario, poi il vuoto. La patente ritirata per guida in stato di ebbrezza nel 2019. Un’escalation di reati minori, sempre più frequenti. Un uomo invisibile, sospinto ai bordi della società senza che nessuno lo fermasse davvero.
Il suo comportamento, ora, suggerisce possibili disturbi psichici, anche se mai diagnosticati. La sua difesa sta già pensando a una possibile perizia psichiatrica. Ma può la follia cancellare la consapevolezza dei gesti? Può l’alienazione sociale assolvere la brutalità di una morte inflitta a mani nude?
Angelito Manansala: l’uomo che voleva solo lavorare
La vittima, Angelito, era l’altra faccia di questa storia. Un lavoratore filippino che aveva trovato a Milano un pezzo di serenità. Accudiva la casa, i cani, il giardino di una famiglia in vacanza. Con discrezione, con rispetto, con quella dedizione che solo chi conosce davvero la fatica dell’emigrare sa portare nel cuore. Era rimasto da solo nella villa, con la pioggia sottile di quella mattina e i cani da portare a spasso. Non immaginava che quel gesto quotidiano, quella porta riaperta senza sospetto, lo avrebbe consegnato alla morte.
La città che osserva e dimentica
Milano ora guarda a via Randaccio come a un luogo ferito. Ma il vero dolore è più profondo: è nella consapevolezza che tragedie così non nascono mai dal nulla.
Sono il frutto di anni di marginalità ignorata, di invisibilità taciuta, di fragilità lasciate crescere nell’ombra.
Dawda e Angelito non si sarebbero mai dovuti incontrare. Eppure si sono trovati uno davanti all’altro, ognuno testimone inconsapevole del fallimento dell’altro. Uno voleva proteggere. L’altro voleva sopravvivere. E invece, sono morti entrambi. Uno nel corpo. L’altro nell’anima.
Epilogo di una storia ai margini
Oggi Dawda Bandeh è rinchiuso a San Vittore. Accusato di omicidio, in attesa di giudizio. Le indagini continuano. Gli esami psichiatrici potrebbero aggiungere nuove sfumature a questa vicenda già terribilmente oscura.
Ma qualunque sarà la sentenza, una cosa resterà certa: questa non è solo la storia di un crimine. È la storia di due vite che, in fondo, non hanno mai avuto davvero una possibilità.