Una lite, un uomo, una fine. Il caso di Gioacchino Vaccaro e la rabbia che uccide

È una mattina come tante. Un uomo, sua moglie e il figlio. Una strada qualunque, via Frosinone, Partinico. La macchina davanti sorpassa. Un gesto. Una parola. Uno sguardo di troppo. E in pochi istanti, l’aria si lacera. La normalità implode. Perché non è la strada a uccidere. È l’orgoglio.

Gioacchino Vaccaro aveva 46 anni. Faceva il fruttivendolo. Era conosciuto, rispettato, un volto familiare tra i banchi del mercato. Non un criminale. Non un uomo violento. Eppure, quel giorno, qualcosa si rompe.

Il motore della rabbia

Dall’altra parte ci sono due fratelli, Leonardo e Antonino Failla: 43 e 30 anni. Anche loro non sono mostri. Non sono assassini nel senso classico. Sono uomini. Uomini qualunque.

E forse è proprio questo il dettaglio che fa più paura: chiunque può diventare violento, se toccato nel punto sbagliato.

Il sorpasso viene vissuto come un affronto. Le parole si accendono, gli animi si infiammano. In mezzo, la famiglia di Gioacchino. In mezzo, la rabbia che esplode senza controllo. Si picchiano. In strada. Davanti a tutti. Come animali. Come uomini che non conoscono altra lingua se non quella dei pugni.

La caduta, il silenzio

Gioacchino finisce a terra. Poi in ospedale. Racconta di essere caduto da solo. Protegge, minimizza, forse ha paura. O forse, come molti uomini della sua generazione, prova vergogna. Vergogna di essere stato picchiato. Di aver perso il controllo. Di non essere riuscito a fermare tutto prima.

Poche ore dopo, muore. E la notizia arriva fredda, tagliente, spietata: “Fruttivendolo muore dopo una rissa.”

La psicologia dell’impulso

Cos’è successo in quei minuti? Cosa accade nella mente di un uomo quando smette di vedere l’altro come persona, e lo vede solo come una minaccia? Succede che l’empatia si spegne. Che l’adrenalina guida il corpo. Che il cervello primitivo prende il comando.

Non pensi. Reagisci. È il meccanismo della disumanizzazione istantanea: quando la mente cancella ogni volto, ogni biografia, ogni valore. Resta solo lo scontro. E chi colpisce per primo, si illude di aver vinto. Ma alla fine, perdono tutti.

Una città che osserva

Partinico si ferma. La gente si interroga. Le parole si rincorrono: “Ma com’è possibile?”, “Era un brav’uomo”, “Non doveva finire così”.

I Failla vengono arrestati. Poi scarcerati. L’accusa passa da omicidio preterintenzionale a rissa aggravata. Ma la verità è che la giustizia non può riportare indietro il tempo. Non può cancellare il trauma di una moglie. Lo sguardo del figlio. Il vuoto lasciato su quella strada.

La vera domanda

Non è “chi ha iniziato”. Non è “chi ha colpito per primo”. La vera domanda è: perché non sappiamo più fermarci? Perché la rabbia, oggi, è diventata una lingua madre. Perché la società non ci educa alla gestione delle emozioni.

Perché il silenzio emotivo degli uomini diventa un boato improvviso. E ogni giorno, dietro un semaforo, dentro una coda, in un parcheggio, una scintilla può accendere un incendio.

Gioacchino Vaccaro è morto in un giorno normale. Per una lite che non doveva nemmeno iniziare. E invece è finita così: con un uomo a terra, e un’intera città che si chiede ancora “perché?”.

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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