Dal 1 al 21 aprile 2023 la galleria Art GAP accoglie la personale fotografica “Se invito il buio, la luce scappa” di Mario Carbone, a cura di Annalisa Di Domenico.
“Mario Carbone fotografa situazioni, sguardi, architetture, che trascendono il tempo. Egli non rincorre la bellezza di un’immagine effimera, ma fissa una verità data dagli elementi quotidiani dell’esistenza. Chi guarda le opere di Carbone non può che riconoscersi nel vissuto che lo lega ai suoi simili: ci si rivede nel ragazzino con la palla sotto la maglietta che sembra “incinto”, per riprendere le parole dei bambini, e non si può non provare empatia se si inciampa negli occhi disperati della donna all’osteria “Al vero Albano”, dove si incontravano gli artisti romani negli anni ’50, appoggiata al muro e chiusa nel suo malessere. L’opera fotografica di Carbone va oltre la ricerca della composizione e delle simmetrie, perché egli indaga la verità delle atmosfere di una Roma in bianco e nero in cui due giovani discutono questioni d’amore o due donne scrivono su un piccolo taccuino, incuranti della forza dell’Arco di Costantino, che si erge alle loro spalle. Ma è nella ricerca della luce, o del “buio”, che si scopre la forza delle immagini di questo artista”, racconta Annalisa di Domenico.
La ricchezza sta nei “Contrasti netti disegnano i volumi e ne delineano le figure, come in un dipinto di Raffaello, il buio sembra temere la vicinanza dei toni più chiari, i quali rivelano l’immagine nella sua crudezza. Qui le rughe sul volto della donna anziana evidenziano una vita dura che l’ha segnata non solo nell’animo e la freschezza del viso della donna indiana, imprigionata in un mondo sordo, evidenzia la sua inquietudine. Anche nelle opere a colori, l’artista restituisce la forza della poesia di immagini semplici, attraverso tinte tenui di un mondo quasi rarefatto. In una Piazza del Popolo silenziosa, ritroviamo la figura di una donna seduta su una panchina, cinta in un abito celeste che, persa nei suoi pensieri, sembra voglia suggerire un attimo contemplativo in una città caotica o il piede di una statua antica, in primo piano, scritto da vandali metropolitani che hanno voluto lasciare la loro impronta nel tempo. In tutti questi scatti, Carbone fa rivivere l’umanità che ci ha preceduto, che si è sgretolata ed è divenuta invisibile. Nelle sue inquadrature, egli esplora il mondo eterogeneo degli uomini e delle donne, in un mix di espressioni che partono sempre dalla vita vera. La mostra è un racconto visivo, organizzato con immagini che dialogano due a due, in cui le persone interpretano la precarietà dell’esistenza umana e che Carbone fissa come impressioni fotografiche al di là del proprio tempo” continua Annalisa di Domenico che ci ha regalato una splendida intervista portandoci all’interno dell’anima creativa di questo straordinario artista.
Perché: “Se invito il buio, la luce scappa”?
In collaborazione con la Fondazione Mario Carbone e con il figlio Roberto, abbiamo scelto come titolo una frase che Mario ha detto, parlando tra sé e sé, così, come fosse una riflessione: “Se invito il buio, la luce scappa”, proprio a sottolineare come soltanto nella dualità, in questo continuo rincorrersi degli opposti, sia possibile creare il contrasto che crea l’immagine nella fotografia. Ma questa riflessione è interessante anche nella vita di ognuno di noi, perché anche in essa è sempre necessario cercare di creare un equilibrio. Nel suo lavoro, Carbone si è interessato tanto alla luce quanto al buio, alla parte “oscura” dell’immagine, e ha dovuto mediare sempre per trovare in ogni fotografia la giusta atmosfera.
La luce catturata da un obiettivo cosa trasmette e crea?
È proprio questo il punto, la luce è solo uno degli elementi, perché senza il buio essa non “risuona”. Nelle opere di Carbone si trova spesso questa dicotomia, tanto cha a volte il buio sembra temere la vicinanza dei toni più chiari, ed è in questo alternarsi che si disegnano i volumi, si delineano le figure, e vengono rivelate le immagini nella loro crudezza: nelle rughe sul volto della donna anziana, che evidenziano una vita dura che l’ha segnata non solo nell’animo e la freschezza del viso della donna indiana, imprigionata in un mondo sordo, evidenzia la sua inquietudine. Ogni contrasto evoca qualcosa di più profondo.
Quanto è significativo riuscire a fermare un istante che può diventare eterno?
Le fotografie in mostra restituiscono momenti autentici di umanità. Gli uomini e le donne che sono stati fotografati da questo artista, hanno continuato a vivere nella loro quotidianità senza rendersi conto di essere diventati protagonisti di un’immagine cristallizzata nel tempo. Carbone ha colto un momento della loro vita “normale” che, però, lui considerava significativa e non importa se questi scatti risalgono al passato, chi ferma lo sguardo sulle sue opere riconosce l’intenzione di Mario, perché le azioni degli uomini e delle donne nascondono sempre significati ancestrali che appartengono alla memoria collettiva.
Perché organizzare una mostra fotografica?
L’archivio di Mario Carbone è ricchissimo di materiale fotografico e video ed è necessario rendere queste opere fruibili. Con la pandemia siamo stati costretti a fermarci, ma ora dobbiamo con forza riappropriarci degli spazi culturali. Le opere di Carbone e di altri artisti come lui devono avere la possibilità di uscire dagli archivi e di farsi conoscere anche dai più giovani. Si può venire alla mostra perché si decide di farlo o si può “inciampare” nelle fotografie esposte, perché si passeggia per le vie del centro di Roma. L’importante è incontrare questo artista, perché le sue immagini nutrono e ampliano la nostra visione del mondo.
Sono tanti i “fotografi” soprattutto al tempo dei social, ma la fotografia di fatto che cos’è?
La fotografia contemporanea tende ad essere un mezzo che spesso esaspera la realtà e la vita stessa. Siamo entusiasti di poter postare una foto, ma allo stesso tempo siamo spaventati dai giudizi che essa provoca. Dietro alle immagini che ci rappresentano nella nostra vita onlife, riprendendo il neologismo di Luciano Floridi, spesso non c’è un progetto, un’esigenza di indagine. La fotografia, a mio parere, dovrebbe essere un momento di riflessione ed ogni scatto dovrebbe essere pensato, sentito, cercato. Ogni inquadratura dovrebbe restituire una visione personale che si ricerca nel tempo. Le opere di Carbone sono un valido spunto di riflessione anche per i fotografi moderni, perché esse sono una narrazione autentica della vita. Noi, guardando la fotografia, in quel momento siamo negli occhi dell’autore, che scatta e immortala quel momento, ma che ha anche voglia di indagare e conoscere quella particolare situazione.
Quanta arte c’è in uno scatto?
Si potrebbe dire che l’arte sia la ricerca dello straordinario nell’ordinario. Il fotografo indaga spesso l’ordinario e quando è arte, egli ci trova qualcosa di straordinario e ce lo mostra.
Che cosa l’ha colpita dell’arte di Mario Carbone?
Io, personalmente, amo tutte le opere di Carbone, perché in ogni fotografia riconosco quelle donne ed entro nei loro sguardi, ammiro la bellezza e la forza dei monumenti, ma subito, in quella stessa foto, ricerco le persone che siedono lì noncuranti della storia che hanno alle spalle o mi immedesimo nelle bambine che imitano i lavori delle mamme. Chi guarda le opere di Carbone non può che riconoscersi in quel vissuto che lo lega ai propri simili. Ci si rivede nel ragazzino con la palla sotto la maglietta che sembra “incinto”, un gioco che tutti noi abbiamo fatto. Riflettevo in questi giorni sul fatto che proprio questo ragazzino sembra fare coppia con la “bambina con il pallone” di Letizia Battaglia. Entrambi i soggetti rompono con gli stereotipi di genere ed entrambi i fotografi colgono questo piccolo gesto rivoluzionario: il ragazzino che mima una pancia gravida e la ragazzina che, invece di giocare con le bambole, tiene fiera un pallone in mano.
Quanto una fotografia può essere evocativa e smuovere emozioni, ricordi, vissuti?
Molto spesso, guardando una fotografia, in realtà vediamo noi stessi, ci ricordiamo di esperienze vissute o raccontate. Poi, esiste la fotografia dei maestri come Carbone e ogni immagine sembra nascondere un’atmosfera particolare. Per esempio, sarà esposta un’opera molto intensa, si tratta di una donna conosciuta dai romani, perché anni fa sedeva molto spesso su una panchina nella parte laterale di Piazza del Popolo e rimaneva lì, per ore. È una figura minuta, eterea, delicata, e indossa un abito celeste, ma d’un tratto, tutti questi elementi passano in secondo piano e ci ritroviamo persi nei pensieri della donna, che forse ci suggeriscono una vita più lenta e spirituale in una città, di contro, così caotica. Molte opere di Carbone hanno questo elemento di scoperta, dove i soggetti delle fotografie, anche senza parlare, riescono a donarci un diverso ed interessante punto di vista.
Carbone fa un percorso denso e intriso di mondi, di vita, di empatia: può raccontarci di più?
Sì, infatti oltre al Carbone fotografo instancabile, che fin da giovanissimo si occupa di ritocco e stampa e fotografia di scena, abbiamo anche il Carbone operatore, direttore della fotografia e regista di documentari, che ha avuto importanti riconoscimenti da parte di intellettuali, che lo hanno voluto al loro fianco – nel 1960 con Carlo Levi in Lucania per fotografare i luoghi del suo “Cristo si è fermato a Eboli” e nel 1963 con Cesare Zavattini per partecipare a “I Misteri di Roma”, in cui quindici autori raccontano la vita di una città travolta dall’esplosione demografica e dal boom economico – e da parte del mondo accademico: nel 1964 vince il Nastro d’Argento con il documentari “Stemmati di Calabria” documentario sull’abbandono delle terre feudali da parte della nobiltà calabrese e nel 1967 conquista il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia con “Firenze” nell’alluvione del 1966.
Quanto il contrasto da forma e armonia a un’immagine fotografica?
Nelle fotografie di Carbone il contrasto a volte è più netto e segna un confine che l’occhio ricongiunge a fatica alla parte più in luce, altre volte, invece, sono presenti fasci di luce che tagliano l’immagine in modo quasi violento, come fossero degli stralci singoli. Per esempio, il colonnato di San Pietro, esposto nella mostra, nell’inquadratura ripercorre l’architettura, ma nel gioco di luci e buio si crea una particolare forma, in cui le ombre danno la sensazione di una costruzione parallela.
Una fotografia può essere una poesia per immagine?
La fotografia è un linguaggio e le immagini in qualche modo “parlano”. Carbone racconta un’umanità commovente: nelle azioni quotidiane, nei riti pagani e religiosi, nelle chiacchiere tra amanti, nei giochi dei bambini, per il fotografo che li ha saputi vedere, ogni inquadratura è diventata poesia pura.
Perché e soprattutto come Carbone fa rivivere l’umanità che ci ha preceduto, che si è sgretolata ed è divenuta invisibile?
Un esempio esplicativo di questa “umanità” che ci ha preceduto lo ritroviamo nel piede della statua antica in primo piano. Inizialmente, ci si interessa alla fotografia perché è oggettivamente molto bella e curiosa, poi ci si accorge che su quel piede di marmo ci sono tante piccole scritte, opera di vandali metropolitani, che hanno voluto comunque lasciare una traccia del loro passaggio nel tempo e che in quell’opera di Carbone diventano un tutt’uno con la scultura millenaria. Soffermarsi su quella traccia significa far rivivere anche quella umanità.
Il pubblico cosa restituirà di questa intensa mostra?
Invitiamo il pubblico a partecipare, perché le opere di Carbone possano essere conosciute e apprezzate. Sono certa che i visitatori rimarranno entusiasti del lavoro di Mario e, in genere, chi lo conosce poi tende a seguirlo e ad amarlo.