Portare un romanzo in scena è sempre un atto di trasformazione, ma anche di profonda risonanza emotiva. Quando Francesco Nannarelli ha letto il libro di Maurizio Carletti, qualcosa lo ha colpito immediatamente: non solo la forza narrativa, ma quella verità fragile e disarmante che il protagonista, Sergio Serpieri, incarna nel suo viaggio tra maschere, memoria e redenzione. È da questa intuizione che nasce “ROLLBACK – Nessuna notte è infinita”, uno spettacolo che mescola ironia e malinconia, realtà e possibilità, e che attraverso una regia delicata e potente accompagna lo spettatore nel cuore di una notte esistenziale da cui, forse, è ancora possibile tornare.
In questa intervista, Francesco Nannarelli ci racconta il dietro le quinte di questa operazione teatrale: le sfide dell’adattamento, l’empatia con i personaggi, il lavoro con il cast e il significato profondo di quel “rollback” che parla un po’ a tutti noi.
Francesco, cosa ti ha colpito di più del romanzo di Maurizio Carletti al punto da volerlo portare in scena?
Mi ha colpito la delicatezza con cui Maurizio racconta la fragilità umana senza mai giudicarla. C’è una verità emotiva nel personaggio di Sergio che mi ha preso immediatamente. Il romanzo non ha una struttura teatrale naturale, ma l’adattamento, fatto di dialoghi autentici e situazioni che oscillano tra il comico e il drammatico, lo ha reso perfetto per il palcoscenico.
Il titolo “ROLLBACK – Nessuna notte è infinita” è evocativo e poetico: cosa rappresenta per te questa “notte” e cosa significa “rollback” nel viaggio di Sergio?
La “notte” è la metafora dell’oblio, dell’apatia, della perdita di sé. Il “rollback”, che è un termine tecnico dell’informatica, diventa qui un ritorno alle origini, alla verità. È come se Sergio avesse bisogno di fare un “reset selettivo”, tornando indietro per ritrovare ciò che per lui conta davvero.
La notte è il buio dell’incertezza, della paura e del tempo che sembra sfuggire. Il “rollback” è il ritorno, il riscrivere la propria storia trovando nuovi significati.
Hai scelto anche di interpretare Sergio Serpieri: cosa ti ha spinto a indossare i suoi panni e quanto è stato difficile entrare nella sua doppia vita?
Sergio mi somiglia moltissimo, più di quanto vorrei ammettere. È un uomo che ha indossato molte maschere e, come tanti, ha confuso il successo con la felicità, diviso tra ciò che era prima e ciò che aveva deciso di essere poi. Entrare nella sua vita è stato un atto di empatia, ma anche di coraggio: ho dovuto scavare a fondo nelle sue contraddizioni.
Sergio è un uomo che riscopre il senso del tempo e dell’autenticità. Come hai voluto raccontare questo cambiamento sul palco, attraverso regia e corpo?
Il cambiamento di Sergio è graduale, fatto di silenzi che si allungano, sguardi che si fanno più presenti, gesti che rallentano. Nella regia ho voluto che il ritmo scenico seguisse questa trasformazione, passando da una narrazione più frenetica a una più contemplativa.
La regia alterna momenti comici, drammatici, romantici. Come hai bilanciato questi registri senza snaturare il senso profondo della storia?
La chiave è stata l’ascolto: ogni scena ha la sua verità e il suo tono, ma tutto parte dalla sincerità degli attori. Non abbiamo mai forzato una risata o una lacrima, anche se spesso ci usciva per davvero. Il segreto è stato non avere paura delle emozioni, perché così è anche nella vita.
Il quartiere del Gazometro diventa quasi un personaggio della storia. Come lo hai reso vivo e pulsante sulla scena teatrale?
In realtà non è proprio un “personaggio” della storia, è piuttosto un punto di ritorno e di arrivo. E’ come ritornare in famiglia, la famiglia di origine. D’altronde un piccolo quartiere è come un piccolo paese: ci si conosce un po’ tutti e si stringono facilmente rapporti di simpatia con tanti piccoli artigiani e negozianti. Gran parte dello spettacolo poi si svolge al bar Ardenzi o, senza scendere nei dettagli per non spoilerare troppo, in una casa lì vicino.
Lucilla Ardenzi è un personaggio centrale, affascinante e complesso. Com’è stato costruire il suo rapporto con Sergio e con il pubblico?
Lucilla è il “contrappunto emotivo” di Sergio. Con l’attrice Catia Pini, abbiamo lavorato sulla dinamica del rapporto tra Lucilla e Sergio, che è fatta di chiaroscuri, lasciando spazio a silenzi significativi e a momenti di pura sincerità; sul non detto, sugli sguardi, sulle pause e sulle emozioni. Lucilla si mostra con schiettezza e sincerità; condivide con il pubblico le sue debolezze, le sue insicurezze ed anche la sua tenerezza, e lo conduce per mano cercando di coinvolgerlo in una sorta di danza emotiva.
Il cast è numeroso e variegato. Come hai lavorato con gli attori per creare un clima corale e autentico, soprattutto nelle scene di “vita di quartiere”?
Devo ringraziare tutto il cast, perché ha “sposato” il progetto, anche chi ha pochissime battute, e si è completamente affidato alla mia regia. Insieme abbiamo fatto un gran lavoro sullo studio dei personaggi, creando un passato fittizio, il famoso background , da portare poi nell’interpretazione del personaggio stesso. Ho chiesto agli attori di mettere qualcosa di loro nei personaggi per renderli più veri possibile. La vita di quartiere la si vede nei ricordi, nei racconti o nelle belle chiacchierate al bar Ardenzi. Il bar di quartiere, appunto.
Le musiche originali di Marco Taggiasco accompagnano la pièce. Che ruolo ha la musica nel racconto emotivo di ROLLBACK?
La musica è una componente essenziale nei miei spettacoli, definisce l’emozione in un modo in cui, a volte, neppure l’immagine riesce. Perfino gli stessi attori hanno un coinvolgimento più profondo quando in scena c’è il commento sonoro. Con Marco c’è una collaborazione che dura da oltre 30 anni, con lui abbiamo sperimentato tecniche quasi cinematografiche per l’inserimento della musica e devo dire che i risultati sono sorprendenti, la sua musica è meravigliosa.
Lo spettacolo tocca temi profondi come la malattia, il tempo che resta, l’identità. Come hai evitato il rischio della retorica o del patetismo?
Con il pudore. Non abbiamo mai calcato la mano. La forza della scrittura è che non chiede compassione, ma comprensione. Senza comunque dimenticare mai l’ironia che, spesso e volentieri, ci salva anche nei momenti più bui.
“Nessuna notte è infinita” è un messaggio di speranza. Come hai voluto che emergesse nella regia e nel finale della pièce?
A questa domanda preferirei non rispondere, vorrei lasciare la risposta al pubblico!
C’è una scena che ti ha particolarmente commosso o sorpreso, anche in fase di prova?
Sì, una scena apparentemente semplice: quando Lucilla racconta a Sergio una parte della sua vita. Da principio sembra essere un racconto simile a tanti altri ma poi c’è una svolta, un “nodo drammatico” che, complice anche la musica di Marco Taggiasco, ti colpisce nello stomaco. È lì che ho capito che lo spettacolo funzionava.
Qual è, secondo te, il vero cuore emotivo di questo spettacolo?
Il momento in cui Sergio smette di fuggire. Non è una scena, è un cambiamento interiore che si percepisce. È lì che lo spettatore si riconosce: quando capisce che la verità non fa paura, ma libera.
ROLLBACK parla di ritorno alle radici. C’è qualcosa della tua storia personale che ti ha aiutato a dirigere questo testo?
Sì, molto. Io sono realmente tornato a vivere nel quartiere in cui sono nato e cresciuto, proprio durante la preparazione dello spettacolo, dopo alcuni anni di lontananza. Ho riscoperto volti, voci, strade, ricordi che credevo di aver dimenticato ma che in realtà sono sempre stati nel mio cuore. Questo “ritorno” è diventato anche il mio rollback personale. Mi ha aiutato molto nelle scelte registiche.
Se potessi far arrivare un solo messaggio al pubblico dopo aver visto lo spettacolo, quale sarebbe?
Che ogni notte, per quanto lunga e buia, finisce. E che la verità, anche se fa paura, è l’unico luogo da cui possiamo ripartire.
“ROLLBACK – Nessuna notte è infinita” non è solo uno spettacolo teatrale, ma un atto di ascolto profondo: verso sé stessi, verso gli altri, verso tutto ciò che abbiamo lasciato indietro e che, forse, possiamo ancora recuperare. Francesco Nannarelli ci consegna una regia che parla il linguaggio delle emozioni vere, senza retorica ma con pudore, senza artifici ma con autenticità. E ci ricorda che ogni notte, per quanto lunga, ha un’alba. Il teatro, in fondo, è proprio questo: un luogo dove le ombre prendono forma per aiutarci a vedere meglio la luce.