C’è qualcosa di infinitamente romantico nelle lettere d’amore. Quelle vere, scritte con la penna, macchiate di inchiostro e magari anche di lacrime. Quelle lettere che sanno di sospiri, attese, frasi cancellate e rilette cento volte. Quelle che non si inviano mai… ma che restano nel cassetto della memoria. E anche nel secondo cassetto del mio comodino, tra una maschera viso all’argilla e due confezioni scadute di cerotti detox.
Sì, lo confesso: ho scritto lettere d’amore mai spedite. Alcune erano per uomini che ho amato davvero. Altre per quelli che credevo di amare (ma alla fine era solo una carenza di magnesio e affetto). E poi ci sono le lettere mai scritte, quelle che ho composto solo nella mia testa, mentre ascoltavo musica malinconica e parlavo con la mia tisana alla camomilla come se fosse un vecchio saggio.
La mia prima lettera mai spedita era indirizzata a David, il mio primo amore universitario. L’ho scritta su carta profumata, con penna stilografica. Sei pagine di emozioni traboccanti, rimorsi poetici e sogni infranti. Non l’ho mai inviata. La rileggo ancora ogni tanto, tra una seduta di yoga fallimentare e un attacco di nostalgia. David oggi vende piscine. Ma almeno sa che, da qualche parte, qualcuno gli ha voluto davvero bene.
Poi c’è la lettera per Alistair, il collega affascinante con cui ho avuto una storia intensa e brevissima. In quella lettera, mai scritta, gli dico tutto quello che non ho avuto il coraggio di dirgli a voce: che mi ha fatta sentire viva, che ho adorato i suoi silenzi pieni di significato e detestato i suoi messaggi vuoti. Forse, se avessi scritto quella lettera, oggi non mi sentirei ancora così sospesa.
E poi ci sono le lettere più strane: quelle per me stessa. Ne ho una intitolata “Cara Pippa, sei un disastro meraviglioso”. Un monologo pieno di autocritiche affettuose, consigli ironici e inviti alla pazienza. L’ho scritta dopo un disastroso appuntamento con un uomo che pensava che l’omeopatia fosse una religione e mi ha parlato della sua aura per 45 minuti. Alla fine della serata, l’unica cosa che si è illuminata… è stato il lampione davanti casa mia, mentre lui si allontanava con la bici elettrica e il mio autostima si faceva un gin tonic da sola.
Scrivere lettere è terapeutico. È un atto di coraggio e di dolcezza. Anche se restano lì, chiuse in una busta o in un file segreto nel computer. Anche se non hanno destinatario reale. Perché a volte abbiamo solo bisogno di dire le cose, di lasciarle uscire, di trasformarle in parole scritte per non lasciarle marcire nel cuore.
Vivian dice che la vera nobiltà è scrivere lettere con grazia, anche se nessuno le leggerà. Gavin sostiene che dovrei pubblicarle tutte in un libro intitolato “Lettere inutili di una donna troppo ironica per piangere”. Rachel dice che, se proprio voglio scrivere, almeno lo faccia mentre lei mi prepara il gin tonic.
Io dico che forse, un giorno, scriverò una lettera a quell’amore che ancora non conosco. Lo chiamerò “Caro tu, che forse arrivi tardi… ma meglio tardi che mai”.
E nel frattempo, continuerò a scrivere per me. Per ridere, per ricordare, per sentirmi ancora un po’ romantica. Anche se fuori piove, il tè è ormai freddo e la maschera viso inizia a tirare.