Lenny Bruce: la parola che brucia Tra comicità, censura e un’ipotesi di verità nascosta

C’è una domanda che attraversa il tempo come un lampo: quanto costa davvero la libertà di parola?

Per Lenny Bruce, comico corrosivo e rivoluzionario, quel prezzo è stato altissimo. Non sappiamo con certezza se il suo lavoro l’abbia portato alla morte, non possiamo affermarlo. Ma possiamo indagare, intuire, leggere tra le righe di una storia piena di luci accecanti, ombre profonde e verità scomode.

“In questo spettacolo abbiamo scelto di spingerci oltre, di ipotizzare un omicidio, una possibilità: una partita di droga “tagliata male”, forse non per caso, forse per eliminarlo” ci dice Antonello Avallone.

E come lui non smette di ripetere: “è la nostra interpretazione, non un’affermazione storica. Ma i dubbi sulla morte di Lenny ci sono, e ci inquietano ancora.

Ho voluto portare tutto questo sul palco non solo per raccontare un uomo, ma per parlare a tutte le persone che, ieri come oggi, hanno provato a cambiare qualcosa nella vita collettiva”. Lenny credeva davvero di poter cambiare l’America. Forse aveva scelto una meta troppo grande. Ma aveva scelto anche la verità, il coraggio, la sua voce.

E allora la domanda iniziale ritorna: che cosa succede quando un uomo decide di non tacere più? Questo spettacolo è un tentativo di rispondere e a questa domanda e ad altre ci risponde Antonello Avallone in questa coinvolgente intervista.

Lenny Bruce è stato un comico scomodo, un uomo che ha pagato con la vita il prezzo della sua libertà di parola. Cosa l’ha spinta a portare la sua storia sul palcoscenico oggi, in un’epoca in cui la censura assume forme nuove e sottili?

Precisiamolo: non è detto che il suo lavoro l’abbia portato alla morte! Con l’autore di questo spettacolo Giuseppe Pavia, abbiamo voluto dare la nostra interpretazione ipotizzando un omicidio: ci sono molti dubbi sulla morte di Lenny. Quello che sappiamo è che è la droga che l’ha portato a morire e noi ipotizziamo che fosse una partita tagliata male apposta per eliminarlo. Ripeto, è comunque una nostra ipotesi.

Ho voluto portare in scena questa storia per tutte le persone che cercano e hanno cercato di cambiare qualcosa nella vita collettiva. Lenny credeva di poter di cambiare l’America: una meta, forse, troppo grossa.

Nel suo spettacolo convivono comicità, dramma, satira e tragedia. Qual è stata la sfida più grande nel trovare l’equilibrio tra il Lenny comico e il Lenny martire della libertà?

È stato spontaneo. Quando scelgo uno spettacolo vado d’istinto, ci metto amore puro, per cui non ho fatto nessun calcolo. Ho letto il copione, conoscevo il personaggio e ho dato una mia interpretazione.

Lei ha dichiarato di essere sempre stato affascinato da questo personaggio. Qual è stato il momento, nella vita di Bruce, che più l’ha colpita e che ha voluto restituire con forza in scena?

Forse il momento in cui Lenny, innamorato pazzo di Honey,decide di lasciarla, viste le pressioni che lui stava subendo dalla polizia, per il linguaggio che usava e gli argomenti che trattava nei suoi spettacoli. Il procuratore dello Stato di New York aveva tentato di demolire Lenny attraverso la moglie, convincendola che nella situazione in cui si trovava stava rischiando grosso. Il procuratore cerca di convincere Honey a far ragionare Lenny. Luidecide, nonostante il grande amore, che è più importante la sua missione per la società. “Non posso stare zitto di fronte a qualcuno che decide cosa è giusto e cosa è sbagliato a seconda del colore della pelle”. Diceva Lenny Bruce.

La scenografia mozzafiato e l’uso delle luci e dei costumi sembrano avere un ruolo fondamentale nello spettacolo, quasi come un personaggio aggiunto. In che modo ha lavorato con i suoi collaboratori per creare quest’atmosfera tra il reale e il visionario?

Sono andato dallo scenografo Alessandro Chiti e gli ho spiegato l’idea che avevo in mente. Lui mi ha proposto una soluzione molto originale e di grande impatto visivo, che ho accettato e che è quella che abbiamo realizzato, mi sono fidato molto e ho avuto ragione. La scenografia è stupenda. Le luci servono a creare una particolare atmosfera, tipica dei Night Club di un tempo, manca solo l’odore di fumo e la conseguente nuvola di fumo delle sigarette. Ogni tanto usiamo la macchina del fumo ma non è la stessa cosa.

La vicenda di Lenny è anche una denuncia: un uomo che combatte contro istituzioni, morale comune e pregiudizi. Quanto pensa che questa storia parli al pubblico italiano di oggi, tra nuove forme di intolleranza e di controllo sociale?

Sono passati 40 anni e sono cambiate troppe cose. Nel panorama odierno, soprattutto quello italiano, si ha paura di prendere certi argomenti ma per avere consenso del pubblico si usano parolacce e argomenti sboccati, sotto questo aspetto non vedo collegamenti con il passato. È una storia americana d’altri tempi. Lenny diceva… “Perché mi volete togliere la parola? Ci sono cose peggiori in questo paese e io non faccio male a nessuno”.

Il cast che la affianca porta in scena figure chiave nella vita e nella caduta di Lenny. Come ha lavorato con Riccardo Bàrbera, Giulia Di Quilio, Giuseppe Renzo, Francesca Cati e Flaminia Fegarotti per restituire coralmente la complessità della sua parabola?

La parabola viene fuori da sola quando si cerca di lavorare nelle profondità dei personaggi. Lenny, per esempio, era un uomo che non voleva semplicemente il corpo della bellissima Honey e lei proprio di questo si innamora, oltre al fatto di avere accanto un uomo molto forte caratterialmente. Abbiamo lavorato molto sull’indagare questi aspetti emotivi dei personaggi.

Nel 1974 Bob Fosse portò Lenny al cinema con Dustin Hoffman. Cosa ha scelto di mantenere fedele a quella versione e cosa invece ha voluto ribaltare o riscrivere, per rendere la sua messa in scena unica?

Il testo è stato scritto da Giuseppe Pavia e non è un adattamento del film di Fosse. Ci tengo a precisarlo: il film è costruito sulle interviste fatte alla moglie e alla madre di Lenny. È una storia raccontanta raccogliendo stralci della loro vita. Noi, invece, abbiamo cercato di dare una certa continuità alla storia raccontando il lungo periodo dal 1951, anno in cui Lenny conosce Honey, al 1966 quando Lenny muore. Abbiamo ambientato tutto in un unico night di New York.

Guardando alla società contemporanea, tra social network, fake news e nuove forme di censura, cosa pensa che direbbe oggi Lenny Bruce? E lei, come regista, quale messaggio vuole consegnare agli spettatori che verranno al Teatro Nino Manfredi a vedere questo spettacolo?

Pensiamo di esserci evoluti, crediamo che qualcosa sia cambiato, in realtà siamo molto peggio di prima, conosciamo e studiamo sempre meno, a volte seguiamo falsi miti senza avere spirito critico. Vorrei consegnare poco meno di due ore di teatro, dove assistere ad una storia maledetta ma affascinante, che può commuovere e che racconta un pezzetto di un’America patinata e che poi mandava i ragazzi giovanissimi a fare la guerra in Vietnam, un’America delle grandi inconguenze. Lenny si batteva per il cessate il fuoco in Vietnam. Chiudo con una citazione “Io parlo di tette e di culi, e vengo accusato di essere scena offensiva, ma io vi dico che le scene offensive sono le fotografie stampate sui nostri giornali, dove si vedono tette e culi presi a fucilate, massacrati, bruciati, dal nostro esercito americano, in nome della libertà in Vietnam”.

 

Lenny Bruce diceva: “Perché mi volete togliere la parola? Io non faccio male a nessuno”. La sua voce, graffiante e disperata, attraversa ancora le pieghe della nostra società, fatta di nuove censure, più sottili, più mascherate. Oggi non ci sono più i tribunali per giudicare un comico, ma ci sono i social, le fake news, le arene del giudizio istantaneo.

Lenny – Ipotesi di un omicidio

Quale sarebbe la sua battuta oggi? Cosa direbbe guardandoci, uno per uno, mentre inseguiamo miti vuoti e perdiamo la capacità di pensare criticamente? Forse riderebbe, forse griderebbe. Di certo non starebbe zitto. Sul palco, in meno di due ore, abbiamo provato a restituire un frammento di quell’America patinata che mandava i giovani in Vietnam e che temeva più una parola scomoda che una guerra sanguinosa. Un’America di contraddizioni enormi, dove la libertà era un concetto sacro… finché non veniva esercitata davvero.

E mentre cala il sipario, rimane una domanda, la più semplice e la più pericolosa: che cosa siamo disposti a rischiare, oggi, per dire la verità?

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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