“La voce umana” di Jean Cocteau debutta il 17 ottobre al Teatro Documenti di Roma, con Siddhartha Prestinari per la regia di Rosario Tronnolone. Le musiche sono affidate a Mara Miceli.
Nel febbraio del 1930 Jean Cocteau presentò alla “Comédie Française” una pièce che rappresentava un esperimento: un dialogo di cui era possibile ascoltare solo una parte, perché solo uno dei personaggi è in scena; l’altro è in un luogo imprecisato, dall’altro capo di un telefono.
A sessant’anni esatti dalla morte dell’autore, avvenuta l’11 ottobre 1963, “La voce umana” conserva intatta, e forse ancor più intensa, la sua capacità di coinvolgimento e identificazione. Per il suo autore, il testo “offre all’attrice che lo interpreta l’occasione di recitare due parti, l’una quando parla, l’altra quando ascolta e delimita il carattere del personaggio invisibile che viene fuori attraverso i silenzi… L’autore vorrebbe che l’attrice desse l’impressione di sanguinare, di perdere sangue come una bestia ferita, di terminare l’atto in una camera piena di sangue”.
La trama di dipana all’interno di una narrazione avvincente. Un atto unico incentrato sul dolore e sulla solitudine, che utilizza il telefono, forma di comunicazione per eccellenza, come mezzo per l’incomunicabilità e l’inganno, e la voce umana come uno strumento meraviglioso e sensibilissimo, capace di restituire tutti gli affanni dell’animo.
Con questo testo Cocteau ha composto una partitura perfetta per esprimere la sofferenza d’amore che la maggior parte degli esseri umani sperimenta, e che ognuno decifra con lentezza, nella propria solitudine. Abbiamo intervistato il regista Rosario Tronnolone che ci conduce all’interno di quest’opera così densa di significati significanti.
Quanto è importante “La voce umana”?
È un testo fondamentale nella storia del teatro, che Cocteau stesso aveva definito un esperimento, o anche un pretesto per un’attrice. Un esperimento perché, contro chi lo accusava di rendere troppo macchinosi i suoi lavori, sceglie qui di optare per la massima semplicità: unità di tempo e di luogo (un atto, una camera), un solo personaggio in scena, e il più banale e universale dei temi: l’amore. Un pretesto perché consente ad una brava attrice di recitare due ruoli, quello della donna in scena e quello del suo invisibile interlocutore.
Jean Cocteau è ancora così attuale? Perché?
Perché a differenza di altri drammaturghi che sono stati perfetti interpreti del tempo in cui sono vissuti, e che talvolta oggi ci appaiono datati, Cocteau era un poeta. Tutto ciò che ha scritto, anche il suo teatro, è un distillato di sensibilità e di profonda comprensione dell’umano, che gli permette di dialogare con gli esseri umani di ogni tempo, di attingere ai classici, come spesso ha fatto, e di risultare attuale anche oggi.
Quanto è difficile mettere in scena un’opera così densa di significati significanti?
Molto. Ma è questa la sfida. Non è la prima volta che dirigo “La voce umana”, sia a teatro che alla radio. Ogni volta (anche grazie all’incontro con una diversa, formidabile interprete) il testo mi è apparso nuovo, ricco di significati nascosti. Ogni volta, per esempio, l’uomo dall’altro capo del telefono era un uomo diverso.
Cosa emerge da un dialogo di cui è possibile ascoltare solo una parte?
La parola chiave è appunto “dialogo”. Il personaggio che vediamo in scena non ha mai (o quasi mai) un ruolo attivo nella conversazione. Per tutto il tempo risponde, reagisce. La grande sfida per l’attrice che interpreta questo ruolo è rendere visibile l’invisibile, dare un’identità, una personalità, una voce all’uomo con cui parla.
L’altro dove si trova?
Per la prima metà del testo si trova in un luogo ben preciso, il suo appartamento nel quartiere di Auteil a Parigi. La donna lo vede muoversi davanti all’orologio a pendolo, vede come è vestito, addirittura sa con quale mano regge il telefono e cosa disegna con l’altra mano. Poi, tutt’a un tratto, la situazione cambia: quello stesso appartamento così noto si svuota, la donna può solo immaginare che lui sia con la nuova compagna, forse a casa di lei, ma è un luogo che non riesce a vedere, perché non lo conosce. Improvvisamente si trova al buio, annaspa, ha paura.
C’è un altrove di là dal qui e ora?
Indefinito, spaventoso. È come una dimensione più complessa, fatta non solo di spazio, ma di tempo: un futuro incombente che la relega sempre di più in un passato che rimpicciolisce e la soffoca.
Dopo 60 anni, il pubblico come accoglierà quest’opera?
Quest’anno sono 60 anni dalla morte di Jean Cocteau, ma dalla scrittura di quest’opera sono passati 90, anzi 93 anni! Sono sicuro che la accoglierà con la sensazione di aver assistito a qualcosa che misteriosamente gli appartiene, ci appartiene. Qualcosa di estremamente moderno e attuale.
Qual è la capacità di coinvolgimento e identificazione dell’opera?
Immensa. Quando è ben recitata, e in questo caso lo è da quell’attrice straordinaria che è Siddhartha Prestinari, quest’opera avvince, a tratti diverte, certo commuove, ma soprattutto, direi, spaventa. Perché è possibile (e tutti prima o poi lo sperimentiamo) che l’amore sia vissuto così, in modo spaventoso.
Il personaggio rappresenta l’Io e il Tu di buberiana memoria oppure?
Non credo che Cocteau avesse letto Martin Buber, tuttavia, semplificando al massimo, se il risultato dell’Io-Tu di Buber è il dialogo e il risultato dell’Io-Esso è il monologo, questo testo ha bisogno di una consapevolezza Io-Tu. Deve essere recitato come un dialogo, anche se troppo spesso lo si recita come un monologo.
Il dolore, la solitudine quanto ancora oggi sono pregnanti?
Preferisco non rispondere.
Quale comunicazione vuole far conoscere Cocteau?
Quella di un essere umano (l’autore) con un altro essere umano (lo spettatore o la spettatrice). Quella cioè di un artista che lancia un grido, un segnale, con la speranza che venga udito, raccolto, non importa dove, non importa quando.
La regia è senza dubbio avvincente ma pur sempre impegnativa, quale strategia per renderla al meglio?
L’unica strategia per me è togliere. Arrivare alla semplicità e alla chiarezza. Che è il contrario, beninteso, della didascalicità: ho il massimo rispetto dell’intelligenza del pubblico, e non mi interessa spiegare tutto. Quando parlo di semplicità e di chiarezza mi riferisco ad una comunicazione emozionale più che razionale.
Cosa si aspetta dal pubblico?
Mi piacerebbe incrociare degli sguardi muti che dicono tutto.
Progetti?
Un altro spettacolo in scena alla fine del mese, “Sinfonia d’autunno” di Ingmar Bergman, e molti sogni.
Vuole aggiungere altro?
Grazie delle sue domande.