Io sono il mio lavoro

Nella tavolozza dei colori le tempere a olio sono tutte lì, l’una accanto all’altra, in una moltitudine infinita di possibilità di sfumature dove l’essenza di un colore incontra l’altro creando un itinerario curioso di declinazioni possibili. È un’atmosfera particolare quella che ha accompagnato l’intervista a Emanueli Martorelli, che si è dipanata in un tempo finito aprendo un discorso zigzagante sul tempo vissuto che cura e ha cura della propria natura creativa. Il suo itinerario intimo e lavorativo mette in luce la sua trasformazione personale rispetto alla condizione umana che non fa consapevolezza dell’essere nel mondo come individuo alla scoperta di sé, dell’altro e del possibile perdendosi in un mondo irreale tanto da smarrire sé stesso. La relazione tra l’essere sé stesso nel proprio tempo alla ricerca di un qualcosa che stimoli la consapevolezza e la conoscenza, seppur utilizzando il mezzo satira, è per Emanuele una sorta di missione dove le figure della temporalità (nostalgia, rimorso, rimpianto, gioia, attesa, speranza, possibilità), sono condizioni esistenziali che possono, durante il tragitto, sconfinare nel dolore, nella sofferenza oscura, nelle fragilità umane, nelle situazioni in cui si vive nel presente che fiorisce e muore istantaneamente, senza passato e senza futuro, perché i leoni della tastiera e della rete non hanno né passato né futuro ma solo un attimo di presente che diventa sabbia in una mano chiusa. Eppure, c’è una via. Starmale si schiude al possibile in un tempo proprio fatto di attimi infiniti e possibili. Il lavoro di Emanuele, l’impegno nelle sue variegate sfumature di interesse, è la costruzione di un tempo narrativo che si apre al possibile cogliendo l’essenza dell’esserci come possibilità di riscatto e conoscenza, di vita e respiro, di creatività e tangibilità, di sogno e realtà.

 

Buongiorno, sono Barbara, comprendo che per un artista è l’alba, spero di non averti svegliato?

No assolutamente! Mi sveglio presto, ho soltanto parlato poco, ho ancora un po’ di voce così. Volevo quasi cantare per schiarirla…

Potrebbe essere un’idea: un’intervista cantata?

Perché no! È quello che fanno i trapper.

Caro Emanuele, son curiosa, raccontami di te. Ho letto tantissime cose, sono molto interessata a comprendere davvero chi sei di là dal tuo lavoro.

Tendo al minimalismo, quasi alla sparizione, quindi te la faccio davvero breve. Il mio è stato ed è un percorso sui generis, ho sempre oscillato tra più campi di interesse.

Perché?

Forse per un’incapacità a focalizzare costantemente l’attenzione su un solo ambito.

Ma tu, come nasci artista?

Nasco come musicista, mi sviluppo in altezza come scrittore e giornalista pubblicista. Da subito ho iniziato ad accorpare alla musica i video, l’animazione. Quando pensavo di aver sperperato troppo ho riiniziato a riannodare i fili tra le varie cose e ho compreso che sono una persona che ha una visione di base che poi si sviluppa. Parto da una scrittura spesso tende a sfociare su video e la grafica.

Poi è accaduto qualcosa?

A un certo punto mi sono detto: “l’unica maniera per farsi spazio e riannodare i fili è simulare una redazione completa”.

Infatti?

Ho finto di essere una redazione.

Spiegaci meglio?

La mattina lavoro sui contenuti, verso pranzo realizzo le parti grafiche. Il pomeriggio esco, poiché in tutto questo, quattro volte a settimana, insegno calcetto in una struttura a Trastevere. Sono un dirigente tecnico.

Ti piace il calcio?

È uno sport che ho fondamentalmente odiato (in Italia fino a poco tempo fa il calcio si subiva, per fortuna la tensione si è allentata) pur comprendendone la portata in termini di completezza.

Allora perché lo fai?

Mi piace vederlo applicato sui ragazzi, mi piace molto insegnarlo. La prospettiva è diversa.

E poi arriva la sera?

La sera sono l’ufficio legale della rivista. Mi sono assunto come stagista sottopagato presso me stesso. Riesco anche a non pagarmi, a volte. A parte questo primato nel tempo libero mi piace svenire.

Quando svieni che cosa fai?

Cerco di non pensare ma purtroppo il cervello ha una sua vita propria, così appena mi sveglio mi rimetto a lavorare. Io sono il mio lavoro, sono contentissimo di fare quello che faccio oltre ad essere riuscito a stare a galla nel settore artistico per tanti anni senza alcun appoggio o agenzia. Mi vanto di una cosa … ho visto il crollo di almeno tre settori: musicale, editoriale e spero, adesso, quello televisivo.

Perché speri anche in quello televisivo?

Se lo merita, è un settore vittima del nepotismo. In una certa forma un crollo c’è già stato ma ancora si mantiene a galla. Purtroppo, la frammentazione televisiva ha creato tanti canali monotematici, che finiscono per fare tutti la stessa cosa. È abbastanza avvilente.

Credevo fossi un fan del GF?

Io?

Si, tu!

Lo sto sperimentando su me stesso dal ’95.

Sei tu il Grande Fratello?

Sono il beta tester del Grande Fratello.

La tua è una incapacità a focalizzarsi o voglia di scoprire?

Ti direi incapacità a focalizzarsi, ma solo perché oggi va molto di moda la lamentela nella narrazione di sé, con modalità che rasentano il patetico. In realtà sono un curioso cronico. E molto ossessivo e perfezionista fino al fastidio nel modo in cui porto avanti le cose.

Che vuoi dire?

Nella giornata trovo sempre un tempo utile per dedicarmi alle mie cose. Per esempio, suonare. Suono diversi strumenti da autodidatta, e allo stesso modo mi sono avvicinato alla composizione, alla regia e all’animazione. Ho diretto diversi cortometraggi animati. Quello dell’autodidatta è un sentiero più tortuoso, però ti offre alcune cose che non trovi con l’insegnamento standard o il tutorial. La sperimentazione ti porta in sentieri inaspettati. È a tratti frustrante ma anche una scoperta continua, me ne sono reso conto confrontandomi con dei grandi. Ho conosciuto Bruno Bozzetto, ed è il perfetto prototipo dell’artigiano. Ancora si stupisce, come mi stupisco io, di come il computer possa farti l’interpolazione del movimento. Se metti l’immagine di un braccio abbassato e di uno alzato, il computer disegna i vari passaggi per il cambio di posizione, li crea da solo.

Perché produci visioni?

Tendo ad esplorare un concetto anche nella sua parte visiva, seppure la visione alla base è univoca. Parto da un concetto da cui poi sviluppo l’idea e la parte scritta. L’idea spesso è qualcosa che si aggira tra il satirico e il tragicomico, ma non sempre. Adesso per esempio, assieme a uno studio di animazione di Roma (il Fantasmagorie studio), sto producendo un corto animato che richiama molto Lynch e Buzzati. Una storia con un’ambientazione molto scura e cupa che si rifà a quell’immaginario. Di fatto parto sempre da un’idea di base che poi si sviluppa in tanti segmenti. Non a caso sono giunto a un vero e proprio contenitore come è Starmale, che racchiude tanti ambiti. Anche la musica per esempio: ho messo in piedi la Starmale Records, un’etichetta che definisco indipendente in quanto dipende da fattori a lei indipendenti. Come il budget, per esempio: se non si trova, non si parte. C’è la sezione video con la Starmale TV, una parte dedicata ai libri di pubblicazioni fittizie o poesie in forma di filastrocca e addirittura uno shop con una linea di gadget completa. Mi piacciono le correnti artistiche che hanno incrociato il design. Insomma, volevo un contenitore che potesse racchiudere più idee nelle loro varie forme.

Qual è la filosofia di Starmale?

Nella quarta di copertina del libro ho messo un monito tra l’haiku e l’avvertimento che recita così: il benessere è un vezzo da incoscienti. Non che io non creda al benessere, semplicemente non credo nell’ostentazione del benessere, inteso ovviamente non come wellness ma in maniera più ampia. Ovvero quel benessere da ostentazione che si sfoggia oggi. Porto in giro uno spettacolo teatrale dal titolo “Disperare in meglio” che si focalizza sul tipo di benessere che ci ha portato alla rovina. Oggi siamo in balia delle cose, su tanti ambiti stiamo sostanzialmente tornando indietro, recedendo.

Perché?

Perché abbiamo voltato le spalle al percorso che è necessario intraprendere per giungere al benessere reale. Questo è un mondo che ha bisogno della rapidità: rapidità di movimento, di azione e di risoluzione di qualsiasi tipo di malattia. Intendo la malattia in un significato più ampio, non solo quella fisica o il malanno.

Per starbene bisogna starmale?

È un passaggio utile. Lo starmale in qualche modo si focalizza sulle zone d’ombra che sono quelle che poi ti danno tante informazioni e che sono quelle che, a volte, non vuoi vedere. Ma funziona solo se poi riesci a rielaborare questo male, se non è a fondo perduto. I due anni che abbiamo passato ci hanno dato la cifra di come in alcuni casi non siamo in grado di elaborare in maniera ampia dei momenti fondamentali, come ad esempio il mondo avvolto da una Pandemia.

Tu come li hai vissuti?

Sono anni che terrò molto cari, avrò una profonda cura di loro. Per me sono stati fondamentali.

Perché?

Per quanto personalmente duri, hanno rallentato il mondo intero portandolo a quelli che sono i miei ritmi. Per la prima volta credo d’essermi sentito compreso. Ho assaporato un mondo in marcia alla mia stessa velocità. Siamo stati testimoni d’un evento raro, fra l’altro.

Sei un animale casalingo?

No, anzi, mi piace uscire. Sono una persona che ha lottato molto per ritagliarsi tempi e spazi propri, e per questo momento storico è ancora un assurdo. Quasi un paradosso: ho dovuto impiegare tanto tempo per avere del tempo. A qualcuno la pandemia ha dato questa possibilità: prendersi spazio per fare delle cose che in un altro mondo, quello di prima, non avrebbe avuto la possibilità di fare. Io ho cercato di arrivarci prima di un evento tanto inatteso.

Come è costruita la tua giornata?

Cerco di sviluppare tutte le cose che vorrei fare nell’arco di quella determinata giornata. A meno che non stia lavorando su qualcosa di preciso che richiede più giorni, al mio risveglio capisco cosa voglio fare: suonare, scrivere o distrarmi con il disegno. Poi, come già ti ho detto, quattro pomeriggi a settimana sono al campo da calcio con i ragazzi. E anche quella è una cosa che amo fare.

Una zona ricreativa?

È comunque un impegno, perché ti relazioni con diversi stati di crescita (i ragazzi hanno dai 6 ai 19 anni), ma è un qualcosa con cui amo confrontarmi. Sono curioso, con i ragazzi vivo spesso dei confronti che non trovo con i miei coetanei. Amo la tecnologia e tutto ciò che non è riconducibile a un telefonino, oggetto che di fatto continua a non interessarmi. Tutto il resto invece mi attrae (come computer, linguaggi di programmazione ed elettronica, per esempio) e i ragazzi sono spesso molto attenti a questi ambiti. C’è un confronto anche su certi risvolti dei Social Network, sul modo in cui li utilizzano che, paradossalmente, a volte mi sembra molto più bilanciato rispetto al modo in cui li affrontano gli ultraquarantenni.

La rete, il mondo dei social?

La rete è un’altra cosa. Ѐ un’arma a doppio taglio. Io nasco dai social, la mia prima sovraesposizione mediatica è partita da lì, attraverso dei contenuti che sono diventati virali. La rete procede per ondate emotive, oramai si procede per flussi tematici che subito ne rimpiazzano altri, con un ricambio scomposto e a tratti pericoloso. Cerco sempre di ripararmi dalla rete perché l’aria, soprattutto in questo momento, è irrespirabile.

Perché?

C’è uno scontro costante. Siamo vittime di una logica binaria. Siamo ancorati a dicotomie che oscillano tra vero o falso, torto o ragione. Il possibile o il verosimile sembrano banditi. Sinceramente il dibattito in rete mi sembra arrivato a un buon punto di saturazione. Il tutto risulta estremamente noioso, perché molte persone nell’era della comunicazione non hanno trovato il modo giusto per comunicare. Per comunicarsi. A qualcuno è stata data l’illusione di potersi esprimere, ma questa idea in realtà sta generando solo frustrazione. Ci sono persone che vivono la vita, le cose, i fatti sedute in una sedia, guardano il mondo da uno schermo dalla mattina alla sera. Il ricommento di sé. Se a sera tiri le fila della giornata, ti rendi conto che non hai risolto assolutamente nulla. Hai parlato di tutto con tutti, ma non hai risolto nulla. In questo momento per me la Rete è vissuta così: butto un’idea e scappo. Mi rendo conto che dovrei seguire i trend del momento, ma sono stato chiaro fin dall’inizio: Starmale esce solo in presenza di un’idea ritenuta valida. Anche qui mi prendo i miei tempi, posto tutto con molta parsimonia. E odio il presenzialismo.

Come si costruisce un contenuto virale?

Non lo so. Ho semplicemente sentito l’esigenza di andare a fare satira proprio sugli atteggiamenti in relazione ai Social e alle nuove tecnologie, e su alcune tematiche che mi interessavano. Questo l’ha reso virale. All’epoca lo sfottò sulla Rete stessa non c’era. Quel popolo della Rete che oggi fa quasi tenerezza. Le copertine sono diventate virali per qualche motivo che ignoro. Nell’arco di 3-4 giorni mi hanno cambiato abbastanza la vita. La cosa difficile da far capire agli altri è che dietro c’è comunque un lavoro enorme. Oggi, fare un contenuto virale è facilissimo, perché la gente ricondivide qualsiasi cosa. È difficile distinguersi da certi contenuti virali mantenendo un criterio critico. In certi frangenti arriva prima il meme che l’argomento. Siamo diventati il meme di noi stessi.

Come si fa la satira?

La satira è difficilissima da fare. Oggi c’è una satira tendente a una comicità di base. A tratti stiamo recedendo verso la gag. C’è poi un certo rozzo sarcasmo che con la satira non ha nulla a che vedere.

Nella satira c’è umanità?

C’è un’umanità profonda e lacerata. Assolutamente. Ed ha una particolarità: la falsa satira la riconosci subito, perché l’umanità non ce la trovi.

Il tuo percorso lavorativo, dopo la tua viralità, qual è stato?

Utilizzo il mio sito e le pagine social che dirigo come una sorta di palestra, ma il mio lavoro si è sviluppato soprattutto fuori dalla Rete. All’inizio c’è stato un libro: “Starmale: Guida Ragionata a un Malessere Consapevole”, edito da Chiarelettere. Poi sono approdato in radio con Serena Dandini in “#StaiSerena”. Successivamente sono passato alla tv (“La TV delle Ragazze” e “Stati Generali” su Rai 3), e adesso di nuovo in radio con 610 di Lillo e Greg su Radio2. Sono un autore che interpreta le proprie cose. Un canzonautore, direi. Alla fine, i fili tornano ad intrecciarsi.

Ti piace lavorare in radio?

Assolutamente, e molto di più rispetto alla televisione. Mi piace perché c’è un senso di libertà più ampio. La televisione è limitante, i progetti hanno una gestazione lunga e il più delle volte tendono a naufragare. Rischi di perdere anni dietro a cose che non si concretizzano (e qui è la mia multidirezionalità che mi ha salvato nel mentre). E c’è un livello di approssimazione dovuto anche a una quantità di parenti poco capaci da sistemare davvero imbarazzante.

Da grande cosa farai?

L’arredatore di interni, anzi di interiorità. Della mia. Da grande volevo fare la moltitudine. DisPerdermi senza essere dispersivo. Direi che sono sulla buona strada.

 

 

 

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