“Quel sorriso stampato in faccia… non sa più per cosa sta sorridendo”. Michele Ruffino aveva 17 anni. Il 27 febbraio si è tolto la vita, lanciandosi da un ponte ad Alpignano, vicino Torino.
Un gesto silenzioso. Definitivo. Doloroso. Ma non improvviso. Da anni era vittima di bullismo. Da anni portava sulle spalle il peso di parole che tagliavano più delle lame.
Michele non ce l’ha fatta. Non al giudizio degli altri. Non all’indifferenza degli adulti. Non all’assenza di un’uscita. Aveva scritto una lettera straziante, che la madre ha trovato dopo la sua morte: “Quel ragazzo moro… pur avendo preso peso, continua a sentirsi maledettamente una merda.” E sua madre, Maria Catambrone Raso, ha gridato il suo dolore al mondo con un videomessaggio potente: “Devono pagare. Con la giustizia terrena. Con quella divina, se la vedrà Dio.”
Il bullismo: quando la violenza è invisibile, ma letale. Il bullismo non è un gioco. Non è una fase. È una violenza sottile, quotidiana, sistematica. Si nutre di umiliazione, derisione, esclusione. E colpisce sempre lo stesso bersaglio: chi è diverso, fragile, autentico. Il bullo agisce spesso per paura della propria debolezza, per insicurezza mascherata da arroganza, per bisogno disperato di approvazione.
Ma chi subisce finisce per credere di essere davvero ciò che dicono: sbagliato, inutile, indesiderato.
Perché un ragazzo si uccide per colpa dei bulli? Perché si sente solo. Perché le parole fanno male. Perché il dolore è troppo. Perché gli adulti non vedono.
A 17 anni, la tua identità è un edificio fragile. Basta un insulto ripetuto per trasformare ogni specchio in una condanna. E quando nessuno ti tende una mano, la morte può sembrare l’unica via d’uscita.
Michele era un ragazzo intelligente, sensibile, introverso. Aveva una spiccata sensibilità emotiva che lo rendeva vulnerabile. Soffriva per il suo fisico, troppo magro. Aveva provato ad allenarsi, a cambiare. Ma quando il dolore è dentro, nessun muscolo basta a coprirlo.
Il suo sorriso era una maschera. Nella sua lettera lo dice chiaramente: non sapeva più perché lo indossava.
Un caso emblematico di depressione mascherata, in cui tutto sembra “normale” fuori, ma dentro si consuma un incendio silenzioso.
Michele era solo. Forse amato in famiglia, ma non visto davvero a scuola, tra i pari, tra gli adulti.
Non ha lasciato la vita per debolezza.
L’ha lasciata per esaustione. Perché nessuno gli ha detto: “Ti vedo. Ti ascolto. Sei abbastanza”. Come Giovanni Zanardi, morto suicida per essere stato bullizzato per il suo abbigliamento, Michele ha pagato con la vita il prezzo della sua autenticità.
Due ragazzi diversi, ma uniti dallo stesso dolore. Entrambi vittime di giudizi, risate, etichette. Entrambi ignorati da chi avrebbe dovuto proteggerli.Entrambi morti non per un singolo gesto, ma per una valanga di parole.
Un corpo troppo magro. Un paio di pantaloni rosa. Dettagli banali che diventano armi per uccidere l’identità. Michele e Giovanni non si conoscevano, ma sono fratelli nel dolore. Queste non sono storie di suicidio. Sono omicidi invisibili, compiuti da parole, silenzi e indifferenza. E chi ha pronunciato quelle frasi, chi ha riso, chi ha guardato senza agire…
non può più dormire tranquillo.
Perché le parole uccidono? Perché ogni parola è un seme. Può diventare un fiore. O una lama.
“Fai schifo.”
“Non vali niente.”
“Ammazzati.”
Ripetute cento volte, diventano verità. E un ragazzo fragile smette di credere alla possibilità di essere amato.
Che cosa cerca davvero un bullo?
Non è forza. È insicurezza travestita da arroganza.
Il bullo ha paura. Vuole approvazione. Umilia per non sentirsi piccolo. Ferisce per non sentire le proprie ferite. Michele voleva fare il pasticcere. Voleva creare dolci, donare sorrisi. E invece, ha ricevuto solo l’amarezza della crudeltà. In una scuola che dovrebbe educare, crescere, proteggere… nessuno ha saputo dire: “Fermiamoci. Questo è troppo”.
Ci sono ancora centinaia di Michele e Giovanni là fuori. Seduti tra i banchi, in silenzio. Con un sorriso finto e una lettera nel cuore. Hanno bisogno di essere ascoltati oggi. Perché domani potrebbe essere troppo tardi.