Un bambino di tre anni arriva in ospedale in condizioni disperate: lividi su tutto il corpo, lesioni cerebrali gravi, segni che parlano più delle parole. Si chiama Muhammad. Ha solo tre anni. Tre giorni dopo, muore.
Il sospetto è immediato. Il personale medico segnala quanto osservato: troppi ematomi, troppa violenza per essere un caso fortuito. I Carabinieri intervengono nell’abitazione dove il piccolo viveva con la madre. Lei è l’unica presente al momento del soccorso. Il 26 dicembre 2024, il cuore di Muhammad si ferma. La Procura di Bolzano apre un’indagine per omicidio volontario in presenza di maltrattamenti. La madre viene iscritta nel registro degli indagati.
Il 30 dicembre si svolge l’autopsia. L’esito preliminare non conferma con certezza l’ipotesi investigativa, ma nemmeno la esclude. La patologa si riserva 60 giorni per consegnare un’analisi completa. Nel frattempo, resta sospesa una domanda che taglia l’anima: come può una madre uccidere suo figlio?
Quando una madre uccide, qualcosa si spezza nella nostra coscienza collettiva. La maternità è l’icona dell’amore incondizionato. Quando diventa violenza, ci lascia muti, increduli, feriti.
Ma i casi esistono. E non sono sempre il frutto del male puro. Spesso sono l’epilogo di un dolore silenzioso, che si trasforma in tragedia perché non è mai stato ascoltato.
Ci sono molte strade che possono condurre una madre a compiere l’impensabile. Alcune passano dalla psicosi, dalla depressione post-partum, da disturbi mentali non diagnosticati. Altre si insinuano nei contesti di isolamento sociale, povertà emotiva, violenza domestica.
Alcune madri crollano sotto il peso di un ruolo che la società impone senza pietà: non puoi essere stanca, non puoi cedere, non puoi dire che non ce la fai. Ma la realtà è diversa. E quando l’equilibrio psichico vacilla, la rabbia, la frustrazione, il rifiuto del ruolo materno possono prendere il sopravvento.
Altre volte ancora, il figlio diventa strumento di vendetta, bersaglio di un disagio più grande, specchio di un’identità frantumata. E in contesti culturali oppressivi, la maternità non è una scelta, ma una prigione.
Il caso di Muhammad richiama alla memoria un’altra tragedia che ha diviso l’Italia: Cogne, 2002. Annamaria Franzoni e la morte del piccolo Samuele. Anche lì, una madre. Anche lì, una casa apparentemente normale. Anche lì, il sospetto che l’amore si fosse trasformato in orrore.
Entrambi i casi ruotano attorno a un elemento comune: la madre come unica testimone, unica presenza adulta, unica figura sotto indagine. Nel caso Franzoni, si parlò di raptus, di personalità fragile, di dissociazione. Nel caso Muhammad, per ora, si parla di lividi, di silenzi, di solitudine.
Chi è la madre di Muhammad? Non lo sappiamo con certezza. Ma possiamo ipotizzare un profilo. Una donna isolata, forse depressa, forse intrappolata in una vita che non aveva scelto. Una madre emotivamente fragile, incapace di costruire un legame stabile col figlio, forse portatrice di traumi irrisolti.
La violenza potrebbe essere stata reiterata. Non un gesto improvviso, ma una spirale quotidiana di sopraffazione, dove il bambino diventa il bersaglio di un disagio non curato. Forse anche lei vittima di una cultura che opprime, di una società che non vede, di uno Stato che arriva sempre troppo tardi.
Non esiste un solo modo in cui una madre può uccidere. Non c’è un’unica causa. Esistono crepe invisibili, cicatrici antiche, dolori sommersi. E quando tutto questo si unisce al silenzio sociale, all’assenza di supporti, all’invisibilità delle vittime — allora sì, anche l’amore può diventare morte.
E il più innocente, il più piccolo, il più indifeso… è sempre quello che paga.
Muhammad aveva tre anni. Forse non sapeva parlare bene, ma sapeva piangere. E quel pianto non è stato ascoltato. Non abbastanza.
Se sarà stata la madre a togliergli la vita, allora dovremo chiederci perché nessuno abbia mai provato a salvarli entrambi.
Perché in ogni tragedia come questa, la colpa non è mai solo di chi ha colpito, ma anche di chi ha fatto finta di non vedere.