Il 5 marzo 2025 la Pavart Gallery inaugura la mostra personale di fotografia di Umberto Stefanelli dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW” curata da Velia Littera.
“Vorrei andare oltre l’apparenza di queste centomila e più maschere pirandelliane. Scavare tra perplessità, convinzioni e consuetudini sospese su un tempo d’opprimente modernità”, racconta il fotografo Umberto Stefanelli.
La mostra fotografica “Eyes behind the Window” di Umberto Stefanelli ci invita a scoprire il mondo dietro le superfici trasparenti e opache delle facciate urbane che si trasformano in quadri visivi. Le immagini scattate da Stefanelli svelano una complessità che va oltre la dimensione architettonica: ogni scatto è un racconto sospeso tra l’astratto e il concreto, tra il reale e l’immaginato.
Un elemento fondamentale del suo approccio tecnico è l’uso di una luce naturale diffusa, che accentua i contrasti cromatici senza annullare la morbidezza visiva complessiva.
Stefanelli sfrutta anche il potenziale narrativo del dettaglio: le tende appena visibili, i riflessi sulle superfici vetrate, o un’apertura casuale, diventano frammenti di storie umane celate dietro la rigidità dell’architettura. La geometria delle finestre e delle facciate diventano una tela sulla quale si intrecciano colori, linee e riflessi.
Il tema centrale della mostra è la relazione tra l’interno e l’esterno, tra l’individuo e il collettivo. Le finestre sono barriere, ma anche punti di contatto. Dietro ognuna si nasconde una storia, un frammento di vita che l’osservatore è invitato a immaginare. Questa tensione tra ciò che si mostra e ciò che rimane celato è amplificata dall’estetica pittorica delle fotografie, che invita lo spettatore a perdersi nei dettagli.
La mostra “Eyes behind the Window” è una meditazione sulla città come spazi di contrasto, dove l’anonimato delle architetture si intreccia con l’unicità delle vite umane. Le immagini di Stefanelli ci ricordano che, anche nel cuore del caos urbano, c’è bellezza, c’è storia, c’è arte. Abbiamo intervista Umberto Stefanelli prima del suo vernissage alla galleria Pavart a Roma.
Il titolo della mostra, “Eyes Behind the Window”, suggerisce uno sguardo oltre l’apparenza. Cosa l’ha spinta a esplorare questo concetto in particolare?
La curiosità è la molla che m’ha spinto ad andare oltre l’apparenza. Insieme alla capacità d’osservazione è l’elemento più importante per chi ha l’ambizione di andare oltre. Mi sono quindi interrogato su quanti sentimenti, vissuti o negati, avessero attraversato ogni singola finestra. E da questi sentimenti, figli della mia fantasia, ho iniziato l’esplorazione.
Nel suo statement, lei parla di “centomila e più maschere pirandelliane”. Come si riflette questa idea nel suo lavoro e nella scelta dei soggetti?
Sono sempre stato affascinato dal dualismo delle maschere pirandelliane. Un rifugio sicuro per l’individuo che vuole proteggere la sua intimità, ma al tempo stesso una prigione che condiziona le scelte dell’io autentico. Per questo mi sono chiesto se in fondo, dietro l’anonimato di una finestra, si può – finalmente – tornare ad essere se stessi.
La mostra presenta facciate urbane trasformate in “quadri visivi”. Cosa la affascina dell’architettura come soggetto fotografico?
L’architettura mi ha sempre affascinato, se intesa come un insieme di punti, linee e superfici, elementi primari che ci conducono – come sosteneva Kandinsky – alla natura della forma.
La sua tecnica trasforma la realtà architettonica in composizioni pittoriche. Può descrivere il suo processo creativo e come arriva a questo risultato?
Il processo creativo è qualcosa di estremamente naturale e guai a forzarlo. A me interessa sempre meno la banalità della realtà. La trovo noiosa, se non addirittura tragica. Per questo mi piace concentrarmi sui dettagli, che sono maledettamente più interessanti dell’insieme.
E’ questa la fiamma che tiene vivo il mio processo creativo, tutto il resto sono solo mere questioni tecniche, che trovo di nessuno interesse quantomeno ai fini del risultato finale.
Lei utilizza una luce naturale diffusa e inquadrature frontali. Come queste scelte influenzano la percezione delle sue opere da parte dello spettatore?
Cerco un approccio frontale e fortemente geometrico. Prospettive che non lasciano via di scampo allo spettatore, se non quella di concentrarsi sull’immagine arrivando quasi a “cadere” dentro di essa.
L’osservatore deve entrare in sintonia con l’opera e non trascurarla o, peggio ancora, subirla.
I dettagli come tende, riflessi e aperture casuali giocano un ruolo importante nelle sue fotografie. Qual è il significato di questi elementi e come contribuiscono alla narrazione?
La narrazione è tutta nei dettagli, siano essi tende, riflessi, aperture o visioni. Il mio modo di raccontare per immagini passa tutto da là. Dalla cura e l’attenzione maniacale che riusciamo a collocare proprio nei dettagli, che, ancora una volta, prevalgono sull’insieme.
Si percepisce una forte influenza della pittura astratta nel suo lavoro. Quali sono gli artisti o i movimenti che l’hanno ispirata maggiormente?
Se penso alla mia fotografia, soprattutto a come s’è evoluta negli ultimi anni, sono diversi i movimenti che in qualche modo hanno contribuito alla sua crescita. Dal Futurismo alla Scuola del Bauhaus, dal Realismo Americano all’Action Painting che ha segnato, in maniera piuttosto evidente, il mio ultimo lavoro sulla scomposizione dell’autunno giapponese.
Il tema centrale della mostra è la relazione tra interno ed esterno, individuo e collettivo. Come esplora questi concetti attraverso le sue immagini?
Ci sono sempre un essere ed un apparire e questi elementi, ci piaccia o no, sono costantemente in relazione tra loro. Così mi interrogo sul significato più profondo di questa tormentata relazione, cercando di dare risposte innanzitutto a me stesso.
Le finestre sono viste come barriere ma anche come punti di contatto. Qual è la sua interpretazione di questo dualismo?
La finestra rappresenta perfettamente entrambi. E’ l’uomo dietro la finestra – e non il fotografo – a scegliere se aprirsi o isolarsi dal mondo esterno.
La mostra è descritta come una “meditazione sulla città”. Qual è il suo rapporto con gli spazi urbani e come lo esprime attraverso la fotografia?
Io adoro gli spazi urbani, soprattutto quelli delle grandi metropoli. Mi piace essere un numero infinitesimale nella folla, mimetizzarmi fino quasi a scomparire. La mia fotografia trae grandissimo beneficio da questo anonimato, da questi contrasti, da queste suggestioni che amplificano la mia visione.
La sua formazione artistica a New York e l’esperienza in Giappone hanno influenzato il suo stile? Se sì, in che modo?
Influenzato in maniera indelebile. Non sarei il fotografo e l’uomo che sono senza questi due luoghi. La città di New York mi ha insegnato l’incomparabile piacere di osare. La necessità, diventata quasi ossessione, di costruire un linguaggio fotografico originale. Il Giappone in generale e la città di Tokyo in particolare, hanno invece rappresentato una vera e propria folgorazione sulla via di Damasco. E’ proprio nella Città Fumetto, il non luogo per antonomasia, che la mia fotografia impara a sussurrare, legandosi indissolubilmente alla magnifica, complicatissima arte del sottrarre, riassunta magnificamente nell’espressione “less is more”.
Nonostante gli innumerevoli viaggi, il Giappone è sempre là a dispensare “stimoli innominati, sofferenze senza cure e passioni senza risposte”.
Dal 2009 porta avanti un progetto online di narrazione visiva. Come è cambiata la sua pratica fotografica con l’avvento del digitale e dei social media?
Con l’avvento del digitale la mia creatività si è arricchita di nuovi strumenti. Grazie alla tecnologia digitale sono in grado di seguire l’intero processo creativo, dallo scatto alla post-produzione, fino alla stampa Fine Art. Questo controllo maniacale mi piace e mi piace tanto. Sui social media tocca una nota dolente. Ho un rapporto molto conflittuale e – sbagliando – li seguo poco. Ritengo che nella maggior parte dei casi la qualità, quella vera, sia penalizzata enormemente dalla mediocrità che è purtroppo imperante.
Lei ha collaborato con brand importanti come Polaroid e Levi’s. Come bilancia la sua visione artistica con le esigenze del mondo commerciale?
Io lavoro malissimo su commissione, soprattutto quando si vuole “piegare” la mia fotografia verso qualcosa per la quale non è assolutamente votata. Vuoi un altro tipo di fotografia? Scegli un altro fotografo. Dopo tanti anni ancora non capisco perché una cosa così semplice continui a generare discussioni infinite. Quando però trovo un art director con cui condividere idee, aspirazioni e vedute, allora collaboro con estremo piacere, perché ritengo che, in questo caso, la mia visione e la mia fotografia ne escano rafforzate, traendo grandissimo beneficio da un confronto sano e costruttivo. Da qui credo si evinca quanto poco io sopporti le imposizioni.
Nel 2020 ha vinto il FEP European Photo Book Award con “Photogeisha”. Può parlarci di questo progetto e del suo significato per lei?
L’idea nasce dalla mia esigenza di giocare con le parole, per rafforzare sentimenti ed emozioni suscitati dalle immagini. Un concetto liberamente tratto ed ispirato dalle sperimentazioni della Poesia Visiva. Io sono innamorato dell’italiano. Delle costruzioni immaginifiche che la nostra lingua concede. Un altro vezzo, come “less is more”, che andrebbe decisamente riscoperto e coltivato.
Dopo aver esposto in musei e aver ricevuto riconoscimenti internazionali, quali sono i suoi obiettivi futuri come fotografo?
L’obiettivo è sempre e solo l’emozione.
Viverla il più intensamente possibile, per poi restituirla, attraverso la mia fotografia, sempre e solo in forma d’emozione.