Donne che curano troppo: quando l’amore diventa annullamento di sé

Amare non significa perdersi. Ma a volte, nel tentativo di salvare l’altro, le donne dimenticano sé stesse. E smettono di esistere per accudire, sistemare, guarire. A quale prezzo?

Ci sono donne che non si mettono mai al centro.
Che si svegliano pensando a cosa manca all’altro.
Che pianificano, ascoltano, risolvono, coprono, nutrono, assolvono.
Che non chiedono mai per sé.
Che chiamano amore ciò che è sacrificio.

Sono le donne che curano troppo.

E il loro “troppo”, spesso, non viene visto.
Anzi, viene celebrato.
“È una donna forte.”
“Non si lamenta mai.”
“Sta sempre dietro a tutto.”

Finché un giorno crollano.
In silenzio.
Perché nessuno ha mai pensato che anche loro avessero bisogno di essere curate.

La sindrome della crocerossina

C’è un nome, in psicologia, per questo atteggiamento:
la sindrome della crocerossina.

Colpisce soprattutto donne empatiche, responsabili, sensibili.
Donne che, spesso, hanno imparato fin da bambine che “essere brave” significa prendersi cura degli altri.

E così, da adulte:

  • Si innamorano di uomini “difficili” (fragili, problematici, narcisisti)
  • Si sentono indispensabili quando devono risolvere, sostenere, salvare
  • Confondono amore con bisogno
  • Vivono nell’illusione che, con abbastanza amore, l’altro cambierà
  • Si colpevolizzano quando le cose non vanno

In fondo, credono di non valere nulla, se non stanno facendo qualcosa per qualcun altro.

Quando l’amore è un progetto di recupero

Molte relazioni tossiche si reggono proprio su questo equilibrio malato:
uno distrugge, l’altro ripara.
Uno ferisce, l’altro giustifica.
Uno scompare, l’altro aspetta.

La donna che cura troppo diventa terapeuta, madre, salvatrice.
E dimentica di essere partner, compagna, donna.

Perde i confini.
Si svuota.
Si spegne.

Ma continua a restare.
Perché senza quel ruolo di “aggiustatrice”, si sente inutile. Invisibile. Persa.

Le origini profonde: ferite d’amore mai curate

Questa tendenza a “curare troppo” nasce spesso da ferite emotive infantili.
Figlie di genitori assenti, critici, anaffettivi.
Cresciute con il bisogno di guadagnarsi l’amore.
Imparano che, per essere amate, devono essere utili. Brave. Disponibili.

Così diventano adulte che non sanno dire no.
Che si scusano anche quando hanno ragione.
Che mettono il bisogno altrui prima del proprio benessere.

E non si accorgono che, mentre salvano l’altro, affondano loro.

Curarsi senza perdersi

Amare non significa perdere sé stesse.
Significa scegliere ogni giorno di condividere, senza annullarsi.
Curare l’altro non può diventare una fuga dal proprio vuoto.

Per uscire da questa dinamica servono:

  • Consapevolezza
  • Lavoro terapeutico sulle ferite originarie
  • Riappropriazione del proprio valore indipendentemente dall’altro
  • Apprendimento del diritto a ricevere, non solo a dare

Non si tratta di smettere di amare.
Ma di amare anche sé stesse. Con la stessa dedizione.

 

Call to action finale:

Se ti riconosci in queste righe, fermati. Respira. Chiediti: “Quando è stata l’ultima volta che mi sono chiesta come sto, io?”
Condividi questo articolo con chi si prende cura di tutti, tranne che di sé. È ora di tornare al centro della propria vita.

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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