Diario licenzioso di una cameriera

Lo spettacolo: “Diario licenzioso di una cameriera” è liberamente tratto dal romanzo: !Journal d’une femme de chambre” di Octave Mirbeau. L’adattamento teatrale di Gianni De Feo mette in evidenza una figura femminile sfruttata dal potere maschile e dalla società ricca. La protagonista “Celestine” per ottenere il soddisfacimento delle proprie pulsioni ed esigenze materiali, senza alcuno scrupolo, in modo assolutamente amorale, usa l’unica arma che possiede: il corpo e il potere della seduzione. Il testo denuncia palesemente la borghesia e le sue ipocrisie, la Chiesa, la pedofilia e in generale la violenza sui deboli e sugli indigenti. Uno sguardo inedito, realistico e crudo, sulla Parigi dei primi ‘900 attraverso gli occhi di un’umile cameriera. Il tutto filtrato da una messa in scena ironica, brillante, con un retrogusto amaro interpretato da Giovanna Lombardi. Abbiamo intervistato Gianni de Feo che ci racconta di sé, della sua visione del teatro e dell’adattamento Du “: Journal d’une femme de chambre” di Octave Mirbeau.

 

Perché, “La depravazione dei ricchi puzza! Puzza più del fetore dei poveri” (Octave Mirbeau)?

Quale odore potrebbe mai avere l’ipocrisia, la finzione, la maschera del perbenismo, il profumo stantio dei salotti riservati a “pochi eletti” dove si può decidere ciò che è Bene e ciò che è Male, dove il Giudizio si espande gentilmente per non compromettere le Buone Regole ben sigillate dentro quelle Stanze dove si separa con supponenza il Buono e il Cattivo, dove, protetti dietro falsi portoni ricamati di bello, si nascondono Etichette rancide, mummificate? Tutta questa costruzione ben fatta, questa impalcatura senza Tempo, quanta depravazione può nascondere? Penso all’ultimo romanzo della Recherche di Proust, Il Tempo ritrovato, dove il balletto di una nobile e vecchia società in declino si disperde traballando goffamente mentre vaga ormai in una polvere di Nulla. Il fetore dei poveri, a volte, può essere discolpato grazie alla sua innocenza. Bertolt Brecht così decanta la fine della bella Cleopatra: “…a ciò la spinse la bellezza sua. Beate son le brutte, qui!”.

Che tipo di donna racconta Octave Mirbeau nel suo “Journal d’une femme de chambre”?

Célestine è una donna dei primi del 900 ma può essere riportata ai nostri giorni. Célestine è forte, moderna, appassionata, generosa. Non teme i giudizi e non giudica. Si limita a osservare la realtà ed è pronta a trarne benefici. La immagino con una voce dai toni caldi, ma anche freddi e distaccati. La sua sensualità si colora di ambra pur conservando nordiche sfumature lunari. Si abbandona ma non perde mai il controllo. È una donna che guarda avanti, oltre le apparenze. Jeanne Moreau ne fece un ottimo ritratto nell’omonimo film diretto da Luis Buñuel nel 1964.

Lo spettacolo accende i riflettori su una tipologia di donna, perchè?

Non ho pensato affatto di accendere i riflettori su una tipologia specifica di donna. In una visione più libera, aperta e creativa, almeno nel mio “illimitato” perimetro teatrale, esiste l’individuo umano in tutte le sue molteplici sfaccettature: la fragilità, la forza, l’arroganza, l’umiltà. Il maschile e il femminile. La prepotenza del potere e la dolce sottomissione…l’eterno dualismo tra vittima e carnefice in continua alternanza. Il conflitto di sempre. Per alcuni, nel migliore dei casi, il vero anelito è il raggiungimento dell’UNO.

Chi è la protagonista?

Nella mia messa in scena non ho voluto dare al personaggio di Célestine una connotazione temporale. Il personaggio rimane come sospeso, a cavallo tra tutte le trasformazioni epocali. I suoi abiti possono essere contemporanei, con piccoli richiami vintage e pose statiche, quasi come fosse una figura pittorica d’altri tempi. Una santa, una puttana, una domestica, una padrona? Chissà. E che importa. La gestualità disegna lo spazio scenico. Lo sguardo diventa lo specchio dove il pubblico può riflettersi. Le parole rispettano lo stile del romanzo, ma il ritmo è incalzante, moderno.

Il corpo e il potere della seduzione quanto è forte?

Al di là del corpo nelle sue forme, aspetto e fattezze, il fascino discreto della seduzione può portarci in duplici direzioni: da una parte può distruggerci, dall’altra può condurci in più elevate dimensioni mistiche e spirituali.

Il testo denuncia palesemente la borghesia e le sue ipocrisie, la Chiesa, la pedofilia e in generale la violenza sui deboli e sugli indigenti, quanto di questo è ancora attuale?

Il sopruso dei più forti sui deboli accompagna il percorso di tutte le civiltà, anche là, dove e quando i fondamentali diritti civili possono sembrare ormai acquisiti. Il mare apparentemente calmo può impennarsi in improvvise onde di violenza. Viviamo in un mondo duale in continuo conflitto. Si parla ancora di guerre e si fanno le guerre. La catena dell’evoluzione dovrebbe portarci al raggiungimento del rispetto di tutte le differenze, senza l’ingenua e cinica pretesa di voler abbattere tutto ciò che è diverso da noi e che crediamo non ci appartenga.  Una convivenza difficile, a quanto pare, in questa eterna confusione di ruoli.

Lo spettacolo vuole portare lo spettatore a riflettere su ciò che ancora oggi, a volte, accade?

A mio avviso uno spettacolo dovrebbe aprire lo spettatore all’emozione. La riflessione viene dopo e non cammina mai su un unico binario. È libera, individuale, troppo spesso limitata dal proprio bagaglio culturale o da condizionamenti indotti. L’emozione scava in anfratti inaspettati. Preferisco che lo spettacolo riservi delle sorprese. Mi piace lo stupore, l’incanto, la magia.

Giovanna Lombardi interpreta magistralmente Célestine, come è stato dirigerla?

Intanto bisogna dire che è stata Giovanna a scegliere me come regista. Ha deciso di essere diretta da me dopo avermi visto interpretare alcuni spettacoli (a volte come attore, altre volte solo come direzione). Lo ammetto, sono pignolo, maniaco nella precisione dei gesti, nella cura della musicalità, del ritmo, ossessivo nella corrispondenza del movimento alla battuta. A tratti, mi piace anche disturbare questo meccanismo e scombinare tutto l’ordine prestabilito facendo impazzire le lancette per lasciare spazio a spunti di folle cialtroneria. Perché no? Giovanna ha aderito fortemente a tutto questo, lasciandosi trasportare nel vortice del gioco, con appassionata professionalità, con un controllo delle energie ma anche con un sapiente abbandono all’ironia e al divertimento. Abbiamo discusso, ci siamo confrontati, ci siamo ubriacati tra parole e silenzi con un unico scopo, quello di respirare all’unisono l’odore antico del fare teatro.

Il ‘900 è ancora fortemente presente nel nostro tempo?

Penso che tutte le epoche siano presenti in qualche modo in tutti i tempi. Nell’arte più che mai non si può prescindere da ciò che siamo stati. Si guarda indietro per avere necessariamente uno sguardo nuovo.

La cameriera, la serva, la domestica sono ancora figure fortemente radicate nella nostra cultura borghese?

Sono categorie di lavoratrici che per fortuna hanno conquistato una nuova dignità sociale e diritti indiscutibili, anche se troppo spesso ancora emergono casi di vergognoso sfruttamento. Aggiungerei a queste voci una nuova figura sempre più diffusa nella nostra società destinata all’isolamento: la badante. Le serve? Quelle no. Quelle per me sono Les bonnes di Jean Genet.

Qual è la differenza tra cameriera, serva e domestica?

Non saprei. Penso sia solo una distinzione sociale. Di certo, la cameriera serve a tavola, la domestica serve il tè e la serva non serve più.

Lo sguardo quanto è importante?

Ho avuto la grande occasione di essere diretto da Lindsay Kemp in un suo spettacolo nel 2001, dopo aver fatto diversi laboratori con lui. Tra le tante cose che mi ha trasmesso, una tra tutte mi rimane impressa: la magia dello sguardo! Lo sguardo è ipnotico, trattiene il pubblico, lo incolla, rompe la quarta parete, incanta. “A me gli occhi, please!” diceva il grande Gigi Proietti in uno dei suoi spettacoli cult.

Perché i padroni etichettano le cameriere, la servitù? Oggi è cambiato questo atteggiamento oppure è come nel 900?

È parte della nostra cultura etichettare ogni categoria, non importa quale: il povero, il ricco, il bianco, il nero, il grasso, il magro. Le etichette spesso sono rassicuranti, danno conforto, stabiliscono limiti e confini dei propri ruoli e rappacificano i nostri sensi di colpa. Non frequento i salotti dell’alta borghesia, ma sono sicuro che, anche nel caso in cui le etichette restano le stesse, l’atteggiamento dei padroni sarà senz’altro cambiato. Nel magnifico film Quel che resta del giorno, Anthony Hopkins e Emma Thompson interpretano le figure di due domestici talmente compenetrati nel loro ruolo da rinunciare ai propri sentimenti. Oggi i padroni dovrebbero sapere e riconoscere che sotto quelle livree linde e pulite, c’è un cuore che batte e una vita che cammina.

Chi sono i compagni di viaggio in questo spettacolo?

Approfitto della domanda per ringraziare tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto. In primis, la produzione Ipazia nella persona di Donatella Busini che ha creduto da subito alle potenzialità dello spettacolo. Roberto Rinaldi per la sensibilità nella cura dei costumi e delle scene. Andrea Cavazzini determinato nella diffusione e la promozione, insieme a Francesca Siciliano con cui condivide la comunicazione stampa. Grazie ancora a Donatella Busini che, in un duplice ruolo mi assiste nella messa in scena. E grazie a Giovanna Lombardi per la professionalità, la passione, l’approfondita adesione al personaggio. Un ricordo affettuoso voglio rivolgerlo all’autore del testo, Mario Moretti, creatore e direttore artistico dello storico Teatro dell’Orologio, mitico luogo aperto a tutti i fermenti creativi della città di Roma (e non solo), dove per lunghi anni ho potuto dare spazio ai miei spettacoli.

Andrete in tour?

In tempi non facili per la circuitazione, stiamo programmando diverse proposte a partire dai prossimi festival estivi. Incrociamo le dita.

Progetti?

Debutterò con un nuovo spettacolo musicale da me diretto e interpretato il prossimo 2 febbraio al teatro Lo Spazio. DAIMON (l’ultimo canto di John Keats) è un testo di Paolo Vanacore con gli arrangiamenti musicali di Alessandro Panatteri e il contributo in voce off di Leo Gullotta. Un testo che si articolerà tra immagini proiettate (opere virtuali di Roberto Rinaldi) e canzoni cantate dal vivo, questa volta Giuni Russo e Franco Battiato. Mi tremano già le vene.

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