Il profiling criminale, reso popolare da serie TV come “Criminal Minds” e romanzi bestseller, ha catturato l’immaginazione del pubblico come un metodo quasi magico per catturare criminali sfuggenti. Ma quanto c’è di vero in questa rappresentazione? Il profiling è davvero uno strumento scientifico affidabile o si tratta più di un mito alimentato dalla cultura popolare?
Il profiling criminale, nella sua essenza, è il tentativo di dedurre le caratteristiche di un criminale sconosciuto basandosi sulle prove lasciate sulla scena del crimine e sul modus operandi. L’idea è che il comportamento di un individuo durante un crimine rifletta la sua personalità, background e motivazioni. Un profiler cerca di costruire un “identikit psicologico” del sospettato, fornendo dettagli come età, sesso, livello di istruzione, stato occupazionale e possibili tratti di personalità.
Questa tecnica ha origini che risalgono al 19° secolo, ma è stata formalizzata e sviluppata principalmente dall’FBI negli anni ’70 e ’80. Agenti come John Douglas e Robert Ressler hanno intervistato decine di serial killer detenuti, cercando di capire i loro processi mentali e comportamenti. Da queste interviste sono emersi pattern e tipologie che hanno gettato le basi del moderno profiling.
I sostenitori del profiling criminale affermano che può essere uno strumento prezioso nelle indagini, soprattutto in casi di omicidi seriali o crimini particolarmente efferati. Citano esempi di successo come il caso del Bomber di Atlanta, dove il profilo aiutò a identificare il colpevole. Argumentano che, sebbene non sia una scienza esatta, il profiling può restringere il campo dei sospetti e fornire nuove piste agli investigatori.
Tuttavia, i critici sottolineano che il profiling manca spesso di rigore scientifico. Molti studi hanno messo in dubbio l’accuratezza e l’utilità dei profili criminali. Un’analisi del 2007 ha concluso che i profili generati da esperti non erano significativamente più accurati di quelli creati da studenti universitari senza formazione specifica. Altri studi hanno evidenziato tassi di successo del profiling non molto superiori al caso.
Un problema fondamentale è la mancanza di standardizzazione e di una metodologia scientifica rigorosa. Molto del profiling si basa sull’esperienza personale e l’intuito del singolo profiler, rendendo difficile la verifica e la replicazione dei risultati. Inoltre, c’è il rischio di cadere in stereotipi e pregiudizi, portando potenzialmente a indagini fuorvianti o discriminatorie.
Un altro aspetto critico è l’effetto Barnum: molti profili criminali sono formulati in modo così vago e generico da poter sembrare accurati in molte situazioni diverse. Questo può portare a una falsa impressione di efficacia.
Nonostante queste criticità, sarebbe sbagliato liquidare completamente il profiling criminale. Negli ultimi anni, ci sono stati tentativi di renderlo più scientifico, integrando conoscenze di psicologia, criminologia e statistica. L’approccio del profiling investigativo, sviluppato da David Canter, cerca di basarsi su dati empirici e analisi statistiche piuttosto che su intuizioni soggettive.
In conclusione, il profiling criminale si trova in una zona grigia tra mito e scienza. Non è la tecnica infallibile spesso rappresentata nei media, ma nemmeno uno strumento completamente privo di valore. Il suo utilizzo richiede cautela e consapevolezza dei limiti. Il futuro del profiling probabilmente risiede in un approccio più multidisciplinare, che integri analisi psicologica, big data e intelligenza artificiale per fornire insights più affidabili agli investigatori.
Il dibattito sulla validità scientifica del profiling continuerà sicuramente nei prossimi anni. Nel frattempo, è importante che sia il pubblico che le forze dell’ordine mantengano un approccio critico e realistico verso questa tecnica, evitando sia l’eccessivo scetticismo che la cieca fiducia.