Distinguere per capire. Capire per cambiare.
Ci sono frasi che sembrano scomode. Frasi che a prima vista sembrano negare una verità dolorosa.
E invece la illuminano.
“Non ogni donna uccisa è vittima di femminicidio.”
È una di quelle frasi.
Non è una provocazione. Non è una negazione del dolore.
È, al contrario, un atto di precisione e responsabilità. Perché ogni volta che sbagliamo nome, rischiamo di sbagliare anche risposta.
Cos’è davvero il femminicidio?
Il femminicidio non è semplicemente l’omicidio di una donna. È l’uccisione di una donna in quanto donna.
Perché ha detto di no. Perché voleva andarsene. Perché si vestiva “troppo”. Perché parlava “troppo”. Perché non era più sottomessa.
È la punta di un iceberg fatto di disprezzo, controllo, umiliazioni, manipolazioni.
È il colpo finale di una storia che quasi sempre era già scritta nel silenzio di anni.
Non è una lite finita male. Non è una “tragedia della gelosia”. È una forma estrema di dominio patriarcale.
E allora come si distingue?
La differenza sta nel movente, non solo nella mano che colpisce.
Facciamo qualche esempio.
Monica, 36 anni, viene aggredita in strada da uno sconosciuto durante una rapina. L’uomo la colpisce con violenza, la lascia a terra. Muore dopo due giorni.
È un omicidio. Odioso. Ingiustificabile. Ma non è femminicidio.
Teresa, 58 anni, viene uccisa dal figlio, in casa. Le indagini svelano un movente economico: il ragazzo voleva i soldi della pensione per giocare d’azzardo.
È un parricidio, un omicidio familiare. Ma non è femminicidio.
Giulia, 25 anni, aveva appena lasciato il suo compagno. Lo aveva denunciato per stalking. Lui non aveva accettato il rifiuto, continuava a seguirla, controllarla, umiliarla sui social. Una sera l’aspetta sotto casa, la colpisce con 18 coltellate.
Questo è femminicidio.
Perché in quel gesto non c’è solo morte.
C’è un messaggio: “Tu non sei mia. Allora non sei nulla.”
Un crimine d’identità, non di relazione
Non basta che il killer sia un partner o un ex.
La chiave è il movente di genere. Come nel razzismo, come nell’odio omotransfobico, il bersaglio è l’identità.
Un femminicidio non è solo la fine di una storia. È la punizione per un’identità che ha osato essere libera.
Libera di amare. Di non amare più. Di vivere.
Perché questa distinzione è cruciale
Perché se chiamiamo tutto “femminicidio”, alla fine non lo chiamiamo più davvero.
Se ogni donna uccisa è vittima di femminicidio, la parola perde forza.
Diventa generica. Si svuota. E la lotta contro la violenza di genere diventa una battaglia senza bersaglio preciso.
Pensiamoci:
Un uomo uccide per rubare.
Un altro uccide per eredità.
Un altro ancora uccide perché non sopporta che lei abbia deciso di vivere libera.
Tre morti. Tre orrori. Ma solo uno è femminicidio.
Non si tratta di gerarchizzare il dolore. Ma di capire il contesto per combattere davvero.
Un esempio che fa riflettere: il caso di Ornella
Ornella, 44 anni, madre di due figli, viene trovata morta in casa. All’inizio si pensa a un suicidio. Poi emergono dettagli inquietanti. Un ex compagno ossessivo. Messaggi minacciosi. Una denuncia rimasta inascoltata.
Lui dice: “Non potevo accettare che fosse felice senza di me.”
Ecco. Qui c’è il cuore del femminicidio: la donna come oggetto da possedere o distruggere.
Non per amore. Per potere.
La legge lo riconosce: come l’odio razziale o religioso
La nostra giurisprudenza, anche attraverso il “Codice Rosso”, ha introdotto aggravanti specifiche per i reati commessi con finalità di disprezzo di genere.
Il femminicidio è, a tutti gli effetti, un crimine d’odio.
Come aggredire qualcuno perché è nero.
Come uccidere per omofobia.
È la stessa logica: colpisco ciò che rappresenti, non solo ciò che sei.
Dare il nome giusto salva delle vite
Dare il nome giusto a un crimine non è una formalità. È uno strumento di consapevolezza e prevenzione.
Chiamiamo femminicidio ciò che lo è.
Chiamiamo omicidio familiare ciò che lo è.
Chiamiamo violenza predatoria ciò che lo è.
Perché solo distinguendo, possiamo vedere il pericolo quando si affaccia in una storia di controllo, in una relazione malata, in una libertà non tollerata.
E possiamo, forse, evitarlo.
Una volta in più.
Una donna viva in più.