Nel ventre

Il 15 dicembre debutta a Teatrosophia “il ventre” un testo di Antonio Mocciola ispirato a fatti realmente accaduti: nel 1987, nell’indifferenza generale dei media, chiuse l’ultima miniera di zolfo in Italia. Si trovava in Sicilia, nel nisseno. Anni prima, 35 minatori persero la vita per annegamento, a seguito di un forte nubifragio nella zona.

In un monologo serrato e senza momenti di tregua, rivive la voce dell’ultimo zolfataro, Sebastiano. Un ragazzo che entra “caruso” (ragazzino) ed esce uomo, attraverso lancinanti esperienze di vita e lavoro, che lo forgeranno e lo cambieranno inevitabilmente. Costretti a lavorare dall’alba al tramonto, senza tregua, i minatori siciliani erano privati degli abiti, di ogni minimo diritto umano e con paghe da fame nera. Uno scandalo protratto per secoli, fino alle chiusure degli impianti, che hanno lasciato disoccupazione e desolazione all’interno dell’isola. Le parole di Antonio Mocciola e la regia di Marco Medelin fanno rivivere l’incubo di un ragazzo qualunque, intrappolato in un inferno che non aveva previsto, vittima del sogno di un progresso solo illusorio, e di un’indipendenza che non avrà mai. Salvo Lupo, giovane attore siciliano, recita dall’inizio alla fine completamente nudo, così come lo erano questi lavoratori nel ventre della terra, rendendo ancora più scabroso e crudele il racconto di Sebastiano, le cui parole pesano come macigni sulla coscienza di un’Italia perduta, assassina di migliaia di suoi incolpevoli figli.

Antonio Mocciola si racconta e ci racconta di questo suo lavoro coinvolgente ed emozionante.

“Nel ventre” è ispirato a fatti realmente accaduti, di cosa tratta?

La vita in miniera, e nello specifico nella zolfara, mi ha sempre colpito, per la crudezza indicibile delle condizioni di vita. La storia nello specifico è inventata, ma può essere tranquillamente accaduta. È, in un certo senso, archetipica.

Mi è venuto in mente “Ciaula” c’è forse qualche punto di incontro?

Certamente Pirandello ha saputo raccontare come pochi (ad esempio, Verga) queste atmosfere. Qualcosa di quelle letture mi sarà rimasto, così come la visione del film “La discesa di Aclà a Floristella”.

Cosa rappresentano e hanno rappresentato per la Sicilia le miniere?

Un’occasione mancata, l’ennesima. L’isola è stata tradita dallo Stato, con la complicità di pochissimi “imprenditori” locali. Un connubio micidiale, che ha visto come vittime le persone che avevano bisogno di lavorare. Nel nostro Sud, ancora oggi (ma anche al Nord, con gli immigrati), si accetta qualunque condizione, pur di lavorare.

Una volta chiuse le miniere cosa è accaduto?

La desertificazione. In tutto il mondo ci sono state chiusure di miniere, ma in Sicilia la riconversione non è stata neppure tentata. E un’altra strada sarebbe l’utilizzo turistico. L’archeologia industriale è un genere – per restare in tema – fruttifero. Una miniera d’oro che nessuno sa sfruttare.

Quante vittime hanno sempre preso le miniere?

Migliaia. Da Marcinelle in giù tante persone hanno perso la vita, o si sono ammalate gravemente, per le condizioni insalubri di lavoro. Numeri. Solo numeri. Ad attendere la loro morte c’erano tanti pronti alla sostituzione, pronti a morire anche loro. Si viveva per lavorare, e non il contrario.

La vita di un minatore quanto è densa di significati? 

Tantissimi. Entrare nel ventre della terra è quasi un viaggio iniziatico, un ritorno alla materia. E allo stesso tempo è uno scavarsi la fossa.

Sebastiano, cosa rappresenta?

Un eroe qualunque, un illuso, un bimbo adulto. È un germoglio che cerca di diventare pianta, nel deserto.

Perché un monologo?

Perché alla fine nessuno parlava con nessuno, in miniera. Il fiato non andava sprecato. Terra, solo terra. E rumori di picconi. Ho immaginato soliloqui. Parole ingoiate. Ecco perché il monologo.

Quanto è stato difficile emotivamente trattare questo argomento?

Non mi è difficile indagare nell’inconscio. Forse il difficile è sapere comunicare la propria indagine. Emotivamente sono nel pieno delle mie tematiche, quindi perfettamente a mio agio.

Quanto la vita in miniera forgia e trasforma?

Forgia poco, perché una volta entrati in miniera, non se ne usciva mai veramente. E quindi come esperienza di vita valeva poco, si moriva giovani. Trasforma tanto, perché a 20 anni un minatore ne dimostrava già 50: si deformava il corpo, e i polmoni si schiantavano per la silicosi.

Perché, i minatori siciliani erano Costretti a lavorare dall’alba al tramonto, senza tregua, privati degli abiti e di ogni minimo diritto umano e con paghe da fame nera?

Perché erano merce. Perché erano poveri e bisognosi. Perché i sindacati arriveranno solo negli anni ’50. Troppo tardi per quel tipo di lavoro, ormai anacronistico.

Perché la scelta di far recitare Salvo Lupo completamente nudo?

Perché i minatori, specie quelli giovanissimi, non avevano nulla. Un po’ per tenerli in continua soggezione, un po’ perché gli abiti – a quelle temperature – si sarebbero attaccati alla pelle, creando danni irreversibili. Ho voluto quindi rappresentare una verità nella sua crudezza. Ma la metafora è lampante: “nel ventre” ci si nasce, in quello materno intento. Il personaggio parte alla ricerca della madre, inghiottita dalla terra durante il tragico terremoto di Messina del 1908. E, cercando il cordone ombelicale spezzato, in qualche modo rinasce, e ritorna ad essere feto. Il nudo, quindi, è un simbolo doppio, è un linguaggio che uso spesso ma con valenze sempre diverse. Qui é una rigenerazione. Ho chiesto a Salvo Lupo, attore di enorme talento, coraggio e disponibilità, di non avere mai niente addosso, l’ho voluto completamente nudo dall’inizio alla fine. Perché questi ragazzi non avevano nulla, e nulla gli era concesso. E Marco Medelin, regista che stimo molto, ha capito le mie esigenze narrative pienamente.

Il significato dell’esser nudi di fronte al nulla? 

Certo, è l’uomo solo con sé stesso nel grande limbo ignoto tra la vita e la morte. Non essendo io credente, per me è quella la nostra condizione: la sospensione. Dopo la vita non c’è nulla.

L’Italia di fronte a tutto questo come si è comportata negli anni?

La condizione del sottoproletariato è nettamente migliorata, e non poteva certo peggiorare. Ma quello che vivevano i siciliani dell’epoca lo vivono adesso gli immigrati.

Lo spettatore come ha accolto l’opera? 

Al Teatrosophia, che adoro, è un debutto assoluto per noi. Quindi la reazione la capiremo adesso. Io e Marco Medelin siamo molto curiosi dell’esito, e allo stesso convinti di avere dato il massimo, così come il nostro giovane “figlioccio”, Salvo Lupo, che tra l’altro è siciliano doc.

Andrete in tour?

Si. A gennaio saremo a Milano, Piacenza e Napoli. Poi riprenderemo a maggio con Catania e Padova.

Vuole aggiunge altro?

“Nel ventre” ha una doppia natura, sociale e intima. Ognuno aderirà, come sempre accade, a quello che più gli assomiglia. Il bello del teatro è che crediamo di scoprire cose che, in realtà, abbiamo già dentro. Il nostro corpo è la nostra miniera. Dobbiamo solo trovare la strada giusta per trovarla.

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