Intervistare un uomo, un artista come Davide Manca è accedere in un mondo-nel-mondo dove la declinazione esistenziale si fa viatico di “virtute e conoscenza”. Nel suo essere-nel-mondo, nel suo territorio creativo si respira un’atmosfera avvolgente che tocca l’anima sprigionando emozioni intense, profonde, uniche. Luce e ombra diventano compagne di viaggio all’interno del suo spazio creativo, del suo essere direttore della fotografia che gioca, interpreta, introduce, racconta, narra e intuisce ciò che l’altro dice attraverso l’immagine. Le ombre si sa, un po’ come la luce, rivelano e svelano. È importante “Non temere mai le ombre. Significa semplicemente che c’è un po’ di luce nelle vicinanze (Dr. Seuss)”. Così, grazie al suo magistrale lavoro, la narrazione si arricchisce di un dialogo fenomenologico dove l’essere-nel-mondo si coniuga con l’essere all’interno del proprio mondo intimo creando un rimando dove significato e significante si armonizzano in un dialogare magico. “I pensieri sono le ombre delle nostre sensazioni: sempre più oscuri, più vani, più semplici di queste (Friedrich Nietzsche)” in fondo “dove c’è molta luce, l’ombra è più scura (J. W. von Goethe)”. Davide Manca ci racconta e si racconta conducendoci all’interno del suo mondo, al tempo stesso ci regala atmosfere emotive generose e intense.
Caro Davide, ma tu chi sei?
Sono un direttore della fotografia, quella figura tra l’autore e il tecnico che cerca attraverso la luce e le ombre di impreziosire di emozioni le scene dei film. Sono, anche, il fondatore di una rivista cartacea che promuove gli autori giovani e sperimentali.
Come arriva la fotografia nella tua vita?
La ricerca di immagini, dell’osservazione del reale e della sua trasformazione in quadri bidimensionale ha caratterizzato fin da giovanissimo la mia vita. Quando finalmente ho capito che muovendo la luce o cambiando il punto di vista gli oggetti prendevano nuova forma e colore, ho capito che dovevo cercare un mestiere che avesse a che fare con tutto questo, è così scoprii che esisteva il mestiere del Direttore della fotografia.
Sei stato allievo di mostri sacri della fotografia, Oliviero Toscani e Giuseppe Rotunno, cosa hai raccolto dal loro insegnamento?
Oliviero fu il mio primo Oracolo, fu colui che mi insegnò che “la semplicità è un risultato“. Sembra abbastanza criptico come messaggio ma racchiude tutta la sua estetica e narrativa. Arrivare alla semplicità è la cosa più difficile per un artista. Giuseppe Rotunno (dopo Fellini, Visconti, Monicelli), il Maestro, mi insegnò che “la luce racconta“, che bisogna modellare la luce, non per estetica ma per narrativa. Le nostre immagini devono amplificare ciò che è scritto in sceneggiatura, dare ancora più espressività alle emozioni in scena.
Perché hai deciso di lavorare nel cinema?
Perché è l’unica arte che pretende, due ore del tuo tempo, chiudendoti in una sala buia, senza distrazioni, con le poltrone morbide e il grande schermo. Un luogo dove si dà, la giusta importanza e il giusto tempo alle immagini. Pensa a una gita in un museo, sei tu spettatore che decidi quanto tempo dedicare ad ogni opera. Noi, nei film, abbiamo la possibilità di catturati e farti immergere nei nostri quadri per tutto il tempo che il regista desidera.
In specifico il tuo lavoro nel set cinematografico in cosa consiste?
Trasformo in immagini ciò che è scritto nelle sceneggiature, realizzo l’immaginario visivo del regista, trascodificando le sue idee in fotogrammi, dove gestisco, le luci e le ombre, i colori e i movimenti della macchina da presa. Sono quel personaggio che è alla macchina da presa e inquadra il film.
È vero che un film senza un direttore della fotografia bravo non è un buon lavoro?
No, questo no. Un film è prima di tutto una storia di emozioni, interpretata da degli attori, più la storia è buona e più gli attori sono forti, più il film sarà un buon lavoro. Senza un direttore della fotografia bravo, tutto ciò potrebbe sembrare povero e amatoriale. Diciamo che il direttore della fotografia bravo, giustifica il prezzo del biglietto della sala cinematografica. Perché ti trasporterà in un luna park di immagini e colori, riflessi e sfumature dei tramonti, sconfinati paesaggi e meravigliose location. Una giostra di immagini che solo proiettata su una superficie così grande ti farà capire come “mai” una Smart tv potrà sostituire il Cinema.
Cosa ricordi del tuo primo lavoro?
Adrenalina e paura, terrore di sbagliare, senso di inadeguatezza, lacrime soppresse ma alla fine una certezza, voler diventare un Direttore della fotografia. Il set è un luogo duro, si corre incessantemente. È come un circo, centinaia di persone che lavorano insieme, ogni giorno in un posto diverso, con enormi camion al seguito con le attrezzature per catturare le migliori immagini per la “nostra storia“. Come ogni luogo di grande collaborazione ci sono gerarchie che vanno rispettate, un sistema piramidale che permette il giusto funzionamento di questo macchina umana dove ogni professionista è un ingranaggio. Ma appunto ognuno deve stare al suo posto e far funzionare perfettamente quel settore. Ecco, la prima volta che entri su un set, tu sei la rotellina più piccola di quella complessa struttura, quella a cui nessuno bada nessuno da importanza, ma da cui tutti pretendo la massima resa. Ma la maggior parte delle volte invece la tua resa è pessima e vieni giustamente rimproverato chiedendoti allora se è il luogo giusto per te.
Hai una fonte di ispirazione?
Ammiro molto il lavoro di Edgar Degas e Henri De Toulouse-Lautrec. La storia dell’arte europea mi ha sempre affascinato, nel loro studio della luce e del colore ho capito molte cose. Ultimamente sto studiando le opere di George De La Tour, sono due anni che provo a ricreare le sue atmosfere, ma ancora non sono soddisfatto.
Cosa si vive attraversando il Red Carpet?
Attraversandolo… profondo imbarazzo, capisci quanto poco sei fatto per stare dalla parte sbagliata della macchina da presa. Però quando vieni a conoscenza che il tuo film è stato selezionato al festival del cinema di Venezia e tu l’hai girato a 26 anni, allora, li in quel momento, sei invaso dalle emozioni. Capisci che anche gli altri ti vedono come un direttore della fotografia, e non è più solo il tuo sogno ma è la prova che l’obiettivo è stato raggiunto, e capisci di essere felice.
È più facile lavorare con i registi o gli artisti della musica?
È fantastico, perché ti permettono di fare le cose più strane e folli che sui film avvengono raramente. Per il videoclip di Salmo, abbiamo segato il tetto di una casa e fatto scendere un macchinario che faceva roteare la Mdp (macchina da presa) a 360gradi. Con Alessandro Borghi e Maurizio che si scambiavano i ruoli e il personaggio. Per Rovazzi e Morandi, abbiano noleggiato una gru mobile e li abbiamo ancorati a delle funi, librandoli in volo per le strade di Milano. Per Francesca Michelin (per la sound track del film PIUMA) abbiamo installato un green screen (un panno che permette di isolare i personaggi dal fondale e inserire altri sfondi) sul fondo di una piscina e fatto diventare il suo nuotare in piscina un nuotare sui cieli della periferia romana.
Sei ideatore e direttore artistico della rivista cartacea “Fabrique du cinèma” e dell’evento “Fabrique Awards” come nascono?
Fabrique nasce da una mia esigenza personale: ero giovane, ero bravo, ero apprezzato da molti registi, ma le Produzioni cinematografiche e le riviste di settore evitavano di prendere in considerazione autori giovani. Questo oltre a me succedeva a tutti gli altri miei coetanei, allora ho pensato: Ok, non volete parlare di noi, non volete emanciparci perché siamo giovani e abbiamo idee diverse, allora ci racconteremo da soli, ci auto-promuoveremo. Così tra eventi con migliaia di persone, una rivista cartacea free press e tanto lavoro come premi internazionali (Fabrique Awards), siamo diventati i talent scout del cinema italiano. Abbiamo anticipato tutti, sulle nostre copertine prima di tutte le altre: Alessandro Borghi, Matilda De Angelis, Margherita Vicariò, Matteo Martari, Lino Guanciale, Benedetta Porcaroli, così come nei nostri articoli le nuove generazioni d’autori si sono raccontate e si sono incontrate ai nostri eventi e oggi quegli autori li, sono i più forti sul nostro mercato!
Hai ricevuto molti premi, quello che ti ha emozionato di più?
Il premio Gianni di Venanzo, vinto prima dei 30 anni. È un premio che i direttori della fotografia danno agli altri direttori della fotografia, quindi per me, una conferma del mio talento assegnatomi da miei colleghi.
Quanti sogni contiene il tuo cassetto del comodino?
Tantissimi, mi sembra di non fare altro che sognare. Per ora so che vorrei rivoluzionare l’esperienza cinematografica per il pubblico, far diventare reale un’idea che da anni ho in testa. Già ci sono riusciti e fanno cose fantastiche “I Ragazzi del cinema America“; il progetto cinema Anteo di Milano, La cineteca di Bologna con il cinema in piazza. Io vorrei poter contribuire con questa nuova idea, che fa parte di un percorso iniziato con il progetto FABRIQUE, ma ha uno sviluppo diverso, però è un’idea che per un po’ rimarrà “segreta” AHAHHAHAH.
Il tuo libro preferito?
Possiamo Salvare il mondo prima di Cena di J.S. Foer.
Un film che non smetteresti mai di vedere?
Il caso Mattei di Francesco Rosi e Bladerunner di Ridley Scott.
Progetti?
Stiamo ultimando una serie Tv per Sky Cinema, molto molto interessante, un progetto insolito per Italia (“Soprattutto dal punto di vista delle immagini”), ma di cui siamo tantissimo orgogliosi. Andrà in onda nel 2023 e per ora è super top secret, posso dire solo che i registi sono Davide Marengo e Marta Savina e i produttori i Fratelli De Angelis Di FABULA PICTURES.
Ultima domanda: da grande cosa farai?
Vorrei poter finanziare le ricerche tecnologiche contro il riscaldamento climatico e aiutare a far comprendere alle persone il grande pericolo che stiamo correndo continuando questo tipo di consumismo estremo e senza la volontà di essere protagonisti del cambiamento.