Discorsi Senza Punto Mentre la Verità Ciao

Andrà in scena al Teatro Trastevere: “Discorsi Senza Punto Mentre la Verità Ciao”, un testo di Rodolfo Ciulla e Aureliano Delisi per la regia di Pier Vittorio Mannucci. Tra gli interpreti troviamo: Gledis Cinque, Erica Del Bianco, Federico Rubino, Nick Russo.

Il testo, scritto a quattro mani da Rodolfo Ciulla e Aureliano Delisi, ha vinto il premio di drammaturgia contemporanea “Shakespeare is now” (2019) ed è stato finalista a “Drammi di forza maggiore” (2021).

Veniamo all’opera: Discorsi si interroga sul senso della vita: perché siamo qui? Qual è il significato ultimo della nostra esistenza? E che cosa dobbiamo farne – di questa e delle altre che, forse, verranno? Queste domande hanno assillato l’umanità fin dall’alba dei tempi, pungolando le menti di filosofi come Kant, Kierkegaard e Schopenhauer, scrittori come Dostoevskij, Proust e Ligotti, e umoristi del calibro di Douglas Adams e dei Monty Python. Discorsi riprende lo spirito di questi ultimi, dando vita a un susseguirsi di vicende surreali apparentemente scollegate: ma le apparenze, si sa, ingannano. A porsi la domanda delle domande troviamo un ginocchio e un gomito, un diavolo e un uomo apatico, un supereroe e sua moglie, un leone e un’antilope, la Terra e il Sole. Personaggi diversi eppur attanagliati dallo stesso desiderio bruciante di trovare una verità assoluta, che continua, sempre e in modo frustrante, a sfuggire di mano.

Abbiamo intervistato il regista Pier Vittorio Mannucci che ci dice:Discorsi mi ha colpito come una folgore: è spiazzante, esilarante, stimolante, e tante altre cose che finiscono in “ante.” È un testo-iceberg, con una molteplicità di livelli di lettura e una complessità che sono nascosti a un primo sguardo, ma emergono con prepotenza con il passare dei minuti. Discorsi abbraccia la poliedricità della natura (umana e non), raccontandola in tutte le sue forme, e alternando con maestria leggerezza e dramma per raccontare la cosa più semplice e complessa che ci sia: la vita. Una vita fatta di ostacoli, cadute, sforzi che sembrano destinati a non finire mai. Una vita vissuta di corsa, senza fermarsi mai, inseguendo un traguardo che pare allontanarsi sempre più: una maratona.

Questa è l’idea che ha guidato la messa in scena dello spettacolo: i personaggi come maratoneti, corridori senza volto che solcano le strade della vita. Le loro identità sono fugaci, effimere: etichette che ci appiccichiamo addosso senza sapere perchè, abbandonate nel magazzino di ruoli creato della società contemporanea, in cui tutti possono essere tutto e finiscono, paradossalmente, per non essere niente. La vita è il ruolo che ci assegniamo, o quello che decidiamo di prenderci? O, forse, la vita va oltre i ruoli, ma siamo divenuti incapaci di farne a meno, spinti dal nostro desiderio di incasellare, categorizzare, ridurre l’orribile incertezza che ci circonda per creare un ordine illusorio? Scegliendo di essere qualcosa – qualunque cosa scegliamo la finitezza dell’essere e rinunciamo alle infinite possibilità del non-essere, sacrificando la proteiforme capacità umana di reinventarsi ancora, e ancora, e ancora”. Ma c’è di più e ce lo narra rispondendo alle nostre domande.

Cosa l’ha spinta a scegliere questo testo per la messa in scena?

Il testo ha vinto la prima edizione del Concorso PaT – Passi Teatrali per la Drammaturgia Contemporanea, con un entusiasmo unanime. Già in fase di selezione avevo detto che, se fosse stato questo il testo vincitore, mi sarebbe piaciuto curarne la regia. Sono un grande fan dei Monty Python e del teatro dell’assurdo, e lo splendido testo di Rodolfo Ciulla e Aureliano Delisi parlava di temi a me cari – significato della vita, rapporti interpersonali, incapacità di trovare il proprio posto nel mondo – con una scrittura magnifica, divertente, e profonda. Mi piace dire che Discorsi è un testo-iceberg, con una molteplicità di livelli di lettura e una complessità che sono nascosti a un primo sguardo, ma emergono con prepotenza con il passare dei minuti.

Come ha interpretato il concetto di “maratona” nella vita e come l’ha tradotto sulla scena?

L’idea è nata insieme all’aiuto regista, Gledis Cinque, mentre riflettevamo sui temi principali del testo, che racchiude scene molto diverse da loro, sia come situazioni che come personaggi, ma accomunate da un essere “sempre di corsa”, sempre affaccendati, senza momenti per poter riflettere, parlare, affrontare i propri problemi. Da lì è nata l’idea dei corridori, che sono diventati maratoneti pensando alle numerose identità che portiamo in scena – identità intercambiabili, come quelle che indossiamo ogni giorno: genitore, lavoratore, partner, figlio, eccetera. Le pettorine e la possibilità di cambiarle mi ha convinto subito, in quanto mi dava la possibilità di connotare i personaggi in modo molto brechtiano, e questo testo ha molti tratti in comune con la poetica di Brecht.

Qual è stata la sfida più grande nel dirigere uno spettacolo con personaggi così diversi e surreali?

Trovare un equilibrio nella caratterizzazione. Da una parte c’era l’esigenza di definirli molto chiaramente, con tutte le loro idiosincrasie e particolarità, perché la loro natura “assurda” era parte integrante del testo. Dall’altra c’era la necessità di mantenere comunque realismo nell’interpretazione, evitando che i personaggi diventassero delle banali macchiette. Insomma, la sfida è stata quella di tenere insieme le due anime del testo – quella comica e quella filosofica e introspettiva – senza sacrificarne nessuna.

Come ha lavorato con gli attori per rappresentare l’idea di “corridori senza volto”?

Per loro è stata una bella sfida. Ho la fortuna di lavorare con attori e attrici bravissimi e, soprattutto duttili. Ci tengo a nominarli tutti perché hanno fatto un gran lavoro: Gledis Cinque, Erica Del Bianco, Federico Rubino, e Nick Russo. La sfida per loro e per me nel dirigerli stava nel fatto di dover interpretare diversi personaggi nel corso dell’opera, passando dal personaggio A al B per poi tornare all’A: serve non solo grande flessibilità attoriale, perché ogni personaggio deve essere diverso e distinguibile nonostante un aspetto estetico praticamente identico, ma anche grande capacità di concentrazione per “entrare” e “uscire” rapidamente dal personaggio, senza sacrificare la verità. Una bella sfida, per loro, e la hanno affrontata con grande bravura, professionalità, ed entusiasmo. E spero si siano anche divertiti.

In che modo lo spettacolo affronta il tema dell’identità e dei ruoli nella società contemporanea?

Il cuore della lettura che abbiamo fatto dello spettacolo è la capacità umana di reinventarsi. È una cosa che facciamo tutti i giorni, senza accorgersene, e che è stata portata alle sue estreme conseguenze dalla società contemporanea. Tutti possono essere tutto, e finiscono, paradossalmente, per non essere niente. I ruoli sono stati svuotati, sono etichette che ci mettiamo addosso. Rimane però la nostra necessità di etichettare ed etichettarci, di definirci. Essere umani è, tristemente, anche rinunciare alle infinite possibilità del non-essere per decidere di essere qualcosa. Fortunatamente, possiamo decidere di cambiare, gettando la vecchia etichetta e trovandone una nuova. Non è facile, ma è ciò che caratterizza la nostra specie e, forse, una delle ragioni della sua sopravvivenza nei secoli.

Come ha bilanciato gli elementi comici e drammatici presenti nel testo?

Come dicevo prima è stata una delle sfide centrali nel portarlo in scena. A livello registico la scelta è stata di enfatizzare gli elementi più filosofici con costumi e scenografia, lavorando sui concetti di identità, del senso della vita (con un albero al centro della scena) e di circolarità ed eterno ritorno. La parte comica è stata affidata agli attori, lavorando su diverse voci, timbri, ritmi della parlata, cercando di usare al meglio gli elementi comici e satirici già ampiamente presenti nel testo.

Quali tecniche teatrali ha utilizzato per rappresentare i diversi livelli di lettura del testo?

Il testo è ricco e stratificato sia a livello tematico che tonale: noi ci siamo concentrati più sulla restituzione del secondo, lasciando che fosse il pubblico a cogliere le sfaccettature tematiche.

In generale, penso il regista debba avere fiducia nelle capacità critiche del pubblico. I livelli di lettura sono, a mio parere, già molto evidenti, e può anche darsi che il pubblico ne trovi alcuni che gli attori e io non abbiamo colto. L’unico elemento che abbiamo utilizzato per far emergere maggiormente alcune delle tematiche è quello costumistico/scenografico. Rinunciando ad avere scenografie e costumi ricchi e complessi, ci siamo affidati alla descrizione letterale degli oggetti con una palette cromatica ridotta al bianco e nero: semplice, essenziale. In questo modo “costringiamo” il pubblico a focalizzarsi su parole, azioni e interazioni anziché “distrarlo” con costumi sgargianti. Il mio intento era quello di valorizzare il più possibile la piccola, folle perla prodotta da Rodolfo e Aureliano.

Come ha collaborato con gli autori Rodolfo Ciulla e Aureliano Delisi durante il processo creativo?

Sono stati ambedue super disponibili, mettendoci a disposizione anche una scena extra che non avevano inserito nel copione. Non la abbiamo usata, ma ci ha dato qualche idee sui ruoli “extra” che compaiono sull’Albero della Vita – magari qualche spettatore più attento se ne accorgerà. Inoltre mi hanno dato mano libera sull’invertire l’ordine di alcune scene, cosa che mi ha permesso di declinare al meglio le idee di maratona e circolarità che erano centrali nella mia idea di messinscena. Rodolfo e Aureliano sono due persone, oltre che autori, eccezionali, e incarnano alla perfezione le due anime di discorsi: comico Rodolfo, filosofico Aureliano, accomunati da un forte spirito esistenzialista che attraversa tutti i loro lavori, anche in solitaria.

Qual è il significato del titolo “Discorsi Senza Punto Mentre la Verità Ciao”?

Questo dovreste chiederlo a loro! A me ha ricordato molto i titoli dei film di Lina Wertmuller, lunghissimi, apparentemente descrittivi, ma in realtà un po’ criptici. Mi sembra un titolo adattissimo a uno spettacolo che cerca il senso della vita.

Come ha lavorato con lo scenografo Nick Russo per creare l’ambiente visivo dello spettacolo?

Siamo partiti dall’idea costumistica dei corridori con le pettorine. Una volta deciso che i ruoli sarebbero stati definiti solo dalle pettorine, abbiamo concluso che anche gli oggetti di scena dovevano essere essenziali e “descrittivi”, con scritte su ciascuno a indicare la loro funzione. In questo modo, tutto è intercambiabile: lo stesso attore è più personaggi, e lo stesso oggetto è ora un muro, ora un water, ora la poltrona di uno psicologo. Abbiamo definito una palette cromatica essenziale, bianco e nero con gli unici spunti di colore dati dalle pettorine presenti sull’albero, da cui cadono a poco a poco come delle foglie. Nick è un piccolo MacGyver, ha costruito tutti gli elementi della scenografia a mano, insistendo sulla necessità di avere oggetti stilizzati ma fatti ad hoc, in modo che da dare allo spettacolo una dimensione visiva coerente e univoca. Ha fatto un lavoro eccellente, permettendoci di ricreare situazioni estremamente complesse (come una partita di bowling) con una scenografia essenziale: Brecht sarebbe stato fiero di lui. E gli oggetti sono anche molto evocativi. Girare con la falce della morte e il forcone del diavolo per Roma e Venezia durante le trasferte è senza dubbio una delle esperienze più divertenti che io abbia mai fatto.

In che modo lo spettacolo si inserisce nel percorso artistico della Compagnia PaT – Passi Teatrali?

Discorsi è il primo testo portato in scena da PaT non scritto da un membro della compagnia, con la parziale eccezione di House Macbeth, che era comunque una rivisitazione di Shakespeare. Discorsi ha un taglio più satirico, più filosofico, rispetto a quello cui siamo abituati, parte dall’universale, anzi, dal cosmico per parlare dell’universale, mentre noi siamo abituati a partire dal particolare. Però al cuore del testo rimangono le tematiche a noi care, e che sono al centro di tutti gli spettacoli di PaT: paura di crescere, spaesamento, relazioni (sia d’amore che di amicizia), del disperato tentativo di sopravvivere in una società che sembra non sapere che farsene dei sentimenti, alienante, disegnata per lasciarsi soli.

Quale messaggio spera che il pubblico colga da questo spettacolo?

Come ho detto, sia da scrittore che da regista non mi piace “imporre” una mia lettura al pubblico, e con questo spettacolo sarebbe particolarmente arrogante: chi sono io per spiegare il senso della vita? In questo senso, Discorsi è uno spettacolo “socratico”: offre idee, domande, non risposte da biscotto della fortuna. È uno spettacolo che abbraccia la complessità, anziché ridurla a ricette semplici e banalizzanti. Spero che il pubblico esca dallo spettacolo ripensando ad alcune scene, con il desiderio di parlarne e riparlarne con gli altri spettatori e anche con chi non l’ha visto. Spero che sul momento faccia divertire, ma poi lasci qualche pensiero, riflessione, spunto che lo spettatore può fare suo e portare con sé fuori dalle mura del teatro.

Come ha affrontato la sfida di mettere in scena domande esistenziali in modo accessibile e coinvolgente?

Il mix di accessibilità e coinvolgimento/intrattenimento in realtà è una dote del testo, una delle ragioni per cui ha conquistato la giuria del Concorso di Drammaturgia. Dal punto di vista registico si è trattato quindi di trovare un mix di elementi in grado di esaltare queste caratteristiche: attori versatili, scenografie semplici ma flessibili ed evocative, e un lavoro sulle musiche di accompagnamento, scelte proprio per sottolineare i diversi toni delle varie scene. In realtà è la stessa musica, ma declinata diversamente per rendere al meglio l’atmosfera di ciascun momento fin dalle prime battute.

Quali sono state le influenze principali, oltre ai Monty Python, nella sua visione registica?

Sicuramente, come già detto, Bertold Brecht, ma anche tutta quella tradizione di teatro povero dove personaggi e oggetti si intercambiano continuamente. Penso a Quelli di Grock, per fare un esempio milanese. E sicuramente nel pensare alla messa in scena mi sono rifatto anche alle prime regie delle opere del teatro dell’assurdo di Beckett: scarne, ma tremendamente evocative. L’Albero della Vita a centro scena è senza dubbio debitore dell’albero di Aspettando Godot.

Come spera che questo spettacolo contribuisca al dibattito contemporaneo sul senso della vita e dell’identità?

Penso che questo testo, e di conseguenza lo spettacolo, abbiano molto da dire sul tema. Si parla molto di cosa significhi essere umani, ma anche essere uomini: è un testo che parla anche di mascolinità, con grande capacità di autocritica e autoanalisi, cercando di ridefinire un termine, un’identità, che si manifesta sempre più spesso in maniera molto problematica. Più in generale, penso che lo spettacolo parli soprattutto a quelle generazioni che vivono una situazione di straniamento, precarietà, in cui tutti i punti di riferimento sono crollati e non ci sono certezze. Discorsi parla del dialogo, del confronto con gli altri come strumento per ritrovarsi, accettarsi, per far tornare a sorgere il Sole nella propria vita. Parlare non risolve tutto, chiariamoci: il senso della vita continua a sfuggirci. Però noi ricominciamo a muoverci, liberi dai fardelli che ci hanno bloccato fin qui.

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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