Criminologia: il lungo viaggio tra crimine, mente e società

C’era un tempo in cui il crimine era visto semplicemente come un atto da punire. Punto. Nessuno si chiedeva davvero perché una persona scegliesse di rubare, truffare o persino uccidere. Bastava colpire con pene severe e credere che la paura del castigo sarebbe bastata a mantenere l’ordine. Ma poi, qualcosa è cambiato.

La criminologia, che oggi ci appare come una scienza affascinante e complessa, ha cominciato il suo viaggio proprio da lì: dal desiderio di capire cosa si nasconde dietro un comportamento criminale. E così, piano piano, si è trasformata da rigida filosofia punitiva in una disciplina che scruta nell’animo umano, nei meccanismi sociali e persino nei circuiti del cervello.

Dove tutto ebbe inizio: i primi passi

Nel Settecento, alcuni pensatori iniziarono a guardare il crimine da una nuova prospettiva. Il più famoso? Cesare Beccaria, che propose una rivoluzione: le pene dovevano essere giuste, rapide, proporzionate. Era l’alba della Scuola Classica, che vedeva il criminale come un individuo razionale, capace di scegliere tra bene e male.

Ma l’Ottocento portò un’altra visione. Secondo Cesare Lombroso, il crimine era iscritto nel corpo, nella biologia. Il delinquente, diceva, si poteva riconoscere da tratti fisici particolari. Una teoria oggi superata, certo, ma che aprì le porte allo studio del criminale come soggetto da analizzare, non solo da punire.

Quando la società entra in scena

Con l’arrivo del Novecento, gli studiosi si accorsero che non bastava guardare dentro il singolo individuo. Bisognava osservare anche intorno a lui: il quartiere in cui viveva, la famiglia, la scuola, i valori dominanti. Nasceva così la criminologia sociologica.

Teorie come quella dell’anomia, secondo cui il crimine nasce quando le persone non riescono a raggiungere i propri obiettivi attraverso vie legali, cambiarono radicalmente il modo di vedere le cose. Il crimine non era solo una “deviazione”, ma una risposta – distorta, sì – a un sistema che non sempre offriva le stesse possibilità a tutti.

Una voce critica e… femminile

Negli anni ’70, qualcuno iniziò a sollevare domande scomode. E se il modo in cui parliamo di crimine fosse influenzato da chi detiene il potere? E se il sistema punisse di più i poveri che i ricchi, le minoranze più degli altri? La criminologia critica mise il dito nella piaga, denunciando le ingiustizie nel modo stesso in cui la società definisce il crimine.

Nel frattempo, le criminologhe femministe alzavano la voce: troppo spesso la violenza contro le donne era ignorata o minimizzata. La criminologia doveva diventare anche uno strumento di equità e ascolto.

Il futuro è già qui

Oggi la criminologia è più viva che mai. Parla la lingua delle neuroscienze, indaga il cervello alla ricerca di segnali legati all’impulsività o alla mancanza di empatia. Analizza i cybercrimini, i social network, le truffe online. Studia come l’ambiente urbano può favorire – o prevenire – le azioni criminali.

Ma non si ferma qui. I criminologi collaborano con le forze dell’ordine, costruiscono profili psicologici dei criminali, disegnano strategie di prevenzione urbana e si occupano anche di giustizia riparativa, cercando nuovi modi per ricucire le ferite del reato.

Molto più che criminali

La criminologia non è più solo la scienza del crimine. È la scienza delle relazioni, del disagio, dei margini. È la lente con cui guardiamo le ombre della nostra società, nella speranza – forse un po’ idealista – di capirle prima di giudicarle. Perché dietro ogni reato, c’è sempre una storia. E ogni storia merita di essere ascoltata.l

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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