In un tempo in cui la guerra torna a occupare le cronache, gli schermi e le coscienze con immagini sempre più spietate e veloci, c’è chi sceglie di rallentare. Di far sedimentare l’orrore. Di portarlo in scena non come spettacolo, ma come esperienza. Brothers nasce da questa urgenza: trasformare la memoria collettiva in carne viva, restituire alla guerra il suo volto umano, le sue voci spezzate, i suoi silenzi che pesano più delle parole. Abbiamo incontrato Gian Paolo Mai, l’autore e regista di questo lavoro corale e viscerale, che ha saputo intrecciare le parole di Faruk Šehić, Darwish, Fallaci, Rodari e altre anime ferite ma ancora vive. Un viaggio teatrale che non cerca di spiegare, ma di far sentire. Perché, come ci racconta in questa intervista, la guerra non si capisce con la testa: si capisce con il corpo.

Un dialogo intimo e politico sul potere del teatro, sul linguaggio della memoria, e su quella fratellanza che resiste anche nel fango.

“Brothers” nasce come cortometraggio ma evolve in uno spettacolo teatrale corale e immersivo. Da dove nasce l’urgenza di portare la guerra sul palco in questa forma così viscerale?

“Brothers” nasce da un’urgenza interiore, prima ancora che artistica. In un’epoca in cui la guerra sembra tornare ciclicamente a bussare alle porte dell’umanità, sentivamo il bisogno di raccontarla non più solo come evento storico o geopolitico, ma come esperienza intima, carnale, quotidiana. Il cortometraggio è stato il primo passo: uno sguardo ravvicinato su due fratelli, sull’umanità che resiste dentro l’orrore. Ma presto ci siamo resi conto che questa storia aveva bisogno di spazio, di respiro, di corpi. Così è nato lo spettacolo corale e immersivo: per far sentire al pubblico il peso dei passi nel fango, il suono dei silenzi, la fratellanza forzata e quella scelta, le paure e le fughe. Portare la guerra sul palco in una forma così viscerale significa non permettere che resti un’astrazione. È un atto di memoria attiva, un invito a non voltarsi dall’altra parte.”

Cosa ti ha colpito nella scrittura di Faruk Šehić, tanto da eleggerlo a guida narrativa di questo viaggio attraverso i conflitti del secolo breve?

Ciò che mi ha colpito nella scrittura di Faruk Šehić è la capacità di tenere insieme la brutalità della guerra e la delicatezza della poesia, senza mai cedere alla retorica. Le sue parole non cercano di spiegare la guerra: la incarnano. Nei suoi testi c’è un’umanità ferita ma mai vinta, un senso del tempo sospeso che somiglia molto a quello che volevamo portare in scena. Šehić riesce a raccontare l’orrore con uno sguardo intimo, quasi febbrile, trasformando ogni frammento di memoria in un atto politico e poetico. Sceglierlo come guida narrativa per “Brothers” è stato naturale: la sua voce è quella di chi ha vissuto sulla pelle la follia del conflitto, ma ha scelto la parola per opporsi all’oblio. In un viaggio dentro i conflitti del ‘900, avevamo bisogno di una bussola che non fosse ideologica, ma profondamente umana. E Faruk ce l’ha data.

Hai parlato di un’Odissea contemporanea. Chi è oggi l’Odisseo che guida lo spettatore in questo viaggio tra le guerre e le rovine della memoria?

La riposta di questa domanda è un proseguimento naturale della precedente . Faruk Šehić

Il testo intreccia voci poetiche e narrative diversissime: Darwish, Fallaci, Rodari, Simonov… Come hai orchestrato questo coro eterogeneo senza disperdere il filo emotivo?

La sfida più grande è stata proprio questa: trasformare un mosaico di voci così diverse in un unico respiro. Darwish, Fallaci, Šehić, Rodari, Simonov… ognuno di loro porta una prospettiva unica, un ritmo, una lingua dell’anima differente. Ma quello che li unisce è l’urgenza: tutti parlano da una soglia, da un luogo in cui la parola diventa sopravvivenza, resistenza, memoria. Per non disperdere il filo emotivo, ho lavorato come un direttore d’orchestra: ogni voce ha trovato il suo posto in un ritmo più grande, armonizzandosi con le altre senza perdere identità. Alcune entrano come fendenti, altre come carezze, ma tutte rispondono a una domanda comune: cosa resta dell’essere umano dentro e dopo la guerra? Il filo emotivo, allora, non è stato costruito: è emerso. È la fragilità, il dubbio, l’amore, il lutto. È l’essere fratelli – non per sangue, ma per sopravvivenza. In fondo, anche se le voci sono diverse, la ferita è la stessa.

In scena ci sono immagini, suoni, oggetti fisici… Quanto è importante il coinvolgimento sensoriale per far comprendere l’orrore della guerra al pubblico?

Il coinvolgimento sensoriale non è un vezzo estetico: è una necessità. La guerra non si capisce con la testa, si capisce con il corpo. È odore di fumo, rumore assordante, freddo sulla pelle, oggetti che diventano trappole o rifugi. In scena, immagini, suoni, oggetti fisici non sono semplici elementi scenici: sono porte aperte su una realtà che altrimenti resterebbe distante, filtrata, anestetizzata. Volevamo che il pubblico non solo vedesse, ma sentisse. Che respirasse con i personaggi, che provasse disorientamento, attesa, paura. Solo così si può restituire, anche solo in parte, l’assurdità della guerra. È un’esperienza immersiva perché la guerra lo è: ti invade, ti travolge, ti cambia il modo di stare al mondo.

C’è una frase di Šehić che colpisce: “Io sono uno ma siamo migliaia. Indistruttibili e spezzati.” Come questa contraddizione si riflette nella drammaturgia?

Quella frase di Šehić – “Io sono uno ma siamo migliaia, indistruttibili e spezzati” – è diventata una sorta di manifesto drammaturgico per noi. In scena, ogni personaggio porta la propria storia, ma nessuno è mai davvero solo. Le voci si moltiplicano, si sovrappongono, si fondono. Un corpo parla, ma dentro quel corpo ce ne sono altri cento. È una polifonia dolorosa, che riflette la condizione di chi vive un trauma collettivo: singoli frammenti di un’identità lacerata, ma tenuta insieme da una resistenza invisibile. La drammaturgia si muove proprio su questa tensione: l’individuale che si fa corale, il frammento che si fa eco. Gli attori non interpretano solo sé stessi o un personaggio, ma anche tutte le voci che quel personaggio porta con sé: i caduti, i superstiti, i nemici, i fratelli. Siamo spezzati, sì, ma indistruttibili perché condividiamo la stessa ferita. E riconoscersi in quella ferita è forse l’unico gesto davvero politico che resta.

Lo spettacolo non vuole solo informare, ma far vivere una lacerazione. Qual è secondo te il ruolo del teatro in un’epoca saturata di immagini e conflitti?

In un’epoca saturata di immagini e conflitti, il teatro ha un compito quasi sacrale: restituire profondità al tempo, allo sguardo, all’ascolto. Viviamo immersi in un flusso costante di notizie, immagini di guerra, tragedie in tempo reale — ma tutto scorre via troppo in fretta, senza lasciare traccia. Il teatro, invece, costringe a fermarsi. A guardare. A sentire. A stare. Il teatro non può competere con la velocità dei media, ma può offrire qualcosa che loro non sanno dare: la presenza. Qui e ora, corpi vivi che raccontano altri corpi vivi. È un luogo dove il conflitto non si consuma, ma si elabora. Dove la distanza si accorcia, e lo spettatore non è più spettatore, ma testimone.

In questo senso, il teatro oggi è un atto di resistenza: contro l’indifferenza, contro il cinismo, contro l’assuefazione. Non offre soluzioni, ma crea uno spazio per le domande. E a volte è tutto quello di cui abbiamo davvero bisogno.

Gaza, Sarajevo, Kabul, Kyiv… In che modo la tua regia si confronta con la contemporaneità, senza mai cadere nel rischio dell’attualismo o del sensazionalismo?

Nominare Gaza, Sarajevo, Kabul, Kyiv non è un gesto provocatorio o decorativo: è un atto di responsabilità. La mia regia si confronta con la contemporaneità cercando sempre di evitare due trappole: l’attualismo che svuota, e il sensazionalismo che spettacolarizza il dolore. Non ci interessa “rappresentare” la guerra come fatto di cronaca. Ci interessa attraversarla come condizione umana, come ferita che si ripete, cambia volto ma non sostanza. Il lavoro registico parte da lì: dal rispetto. Rispetto dei corpi, delle parole, delle assenze. Ogni scelta scenica è filtrata da una domanda: sto creando empatia o sto sfruttando l’emozione? Cerco di lasciare spazio al silenzio, all’incompiuto, all’ambiguità. Perché la realtà non ha mai risposte semplici. In fondo, non voglio che il pubblico dica “ho capito”, ma “ora sento anch’io il peso”. E forse, da quel peso, nasce uno sguardo nuovo.

“La comprensione non la si realizza solo ascoltando” si legge nella presentazione. Come hai lavorato per trasformare il pubblico da spettatore in testimone?

Trasformare lo spettatore in testimone significa rompere la distanza. Non solo fisica, ma emotiva, etica, esistenziale. A teatro ci si lavora in tanti modi, ma il primo è l’ascolto. Ascoltare la materia viva che portiamo in scena e ascoltare il pubblico anche prima che entri in sala: capire cosa può attraversarlo, scuoterlo, interrogarlo davvero.

Poi viene la costruzione dello spazio: uno spazio che non protegge, ma coinvolge. Dove il pubblico non guarda da fuori, ma sta dentro. Le luci, i suoni, gli oggetti, i silenzi… tutto è pensato per rendere impossibile l’indifferenza. Non cerchiamo lo shock, cerchiamo la prossimità. E la prossimità nasce quando ciò che accade in scena ti riguarda, anche se non ti somiglia. Infine c’è il lavoro sull’attore: non un interprete, ma un tramite. Non rappresenta un personaggio, ma incarna una memoria, un’urgenza. Quando l’attore si mette a nudo in modo sincero, senza artificio, qualcosa si apre anche nel pubblico. E in quel momento, lo spettatore smette di osservare e comincia a portare con sé. Come fa un testimone.

Il cast è ampio, giovane, internazionale. Come hai guidato gli attori attraverso testi così forti, pericolosi, a volte quasi insostenibili?

E’ stata una bella sfida . I testi sono molto forti e impegnativi. Li ho assegnati  in modo proporzionato al grado di esperienza e di maturità e in base alla storia degli attori che compongono questo cast.

Quanto di te, della tua storia personale o politica, c’è in questo progetto?

C’è molto di me in questo progetto, ma non in modo autobiografico. Non racconto la mia guerra, ma porto in scena le mie inquietudini, le mie domande irrisolte. Sono cresciuto in un tempo in cui la parola “pace” sembrava scontata, garantita. Poi ho capito che non lo è affatto. E allora ho iniziato a interrogarmi: cosa significa vivere sapendo che, altrove — o anche vicino — qualcuno sta fuggendo, perdendo, resistendo? Dal punto di vista politico, questo lavoro nasce da una posizione precisa: quella di chi rifiuta l’indifferenza. Non ho risposte, non voglio dare lezioni. Ma sento il bisogno di guardare in faccia la complessità, la contraddizione, l’ingiustizia. E forse il teatro è l’unico luogo dove posso farlo senza censure, senza filtri, senza compromessi. È un progetto collettivo, certo. Ma dentro ci sono i miei silenzi, le mie paure, la mia rabbia. C’è il tentativo — personale, urgente — di trasformare tutto questo in un gesto condiviso. Un gesto che non salva, ma almeno non dimentica.

In scena ci sono frammenti di parole ma anche silenzi, vuoti. Come si racconta l’indicibile, ciò che nemmeno la poesia riesce a dire?

L’indicibile non si racconta: si lascia spazio perché accada. In scena abbiamo parole, sì, ma anche silenzi, vuoti, sospensioni. Perché ci sono cose che nemmeno la poesia riesce a dire — e forse proprio lì, in quel vuoto, si nasconde la verità più profonda. Raccontare l’indicibile significa non avere paura del silenzio. Anzi, affidarsi a lui. Il silenzio non è mancanza: è presenza che pesa, che interroga, che lascia lo spettatore nudo di fronte a sé stesso. A volte un attore che smette di parlare e resta fermo in un silenzio pieno vale più di mille battute. È lì che il teatro smette di raccontare e comincia a testimoniare.

Che tipo di reazioni avete raccolto dopo il debutto al Teatro Belli o dopo la tappa al Fringe Festival di Edimburgo?

Le reazioni dopo il Fringe di Edimburgo e al TeatroBello di Roma sono state sorprendentemente intense. In entrambi i contesti — così diversi per cultura, pubblico, aspettative — abbiamo percepito una cosa comune: il bisogno delle persone di fermarsi e ascoltare. Non solo lo spettacolo, ma sé stesse, attraverso quello che stavano vivendo in sala. A Edimburgo molti ci hanno parlato di un impatto quasi fisico, sensoriale. Alcuni spettatori ci hanno detto: “Non capivo tutto, ma sentivo tutto.” Ed è esattamente quello che cercavamo: un linguaggio emotivo che superasse le barriere linguistiche o culturali. A Roma, il pubblico è stato altrettanto partecipe, ma in modo diverso: più verbale, più caldo, spesso commosso. Abbiamo raccolto riflessioni molto personali, legate alla memoria familiare, alla guerra vissuta o raccontata dai nonni, ai conflitti interiori. In entrambi i casi, il pubblico ha risposto non come spettatore, ma come testimone. E questo, per noi, è il segno più forte che il lavoro ha toccato qualcosa di autentico.

Il progetto ha avuto il sostegno straordinario di Emergency. Cosa ha significato per voi questo riconoscimento?

Avere il sostegno straordinario di Emergency non è stato solo un onore, è stato un segno. Un segno che la direzione che avevamo scelto — umana prima che artistica — era quella giusta. Emergency non è solo un’organizzazione: è un simbolo etico, una voce che da anni sceglie di stare dove il dolore è più forte, ma anche dove la dignità resiste. Il loro appoggio ci ha dato forza e responsabilità. Perché quando porti in scena la guerra, i corpi, le ferite, la memoria… non puoi permetterti la superficialità. Sapere che Emergency ha riconosciuto nel nostro lavoro un valore, un’urgenza, un senso, ci ha fatto sentire meno soli. E ci ha ricordato che il teatro può — e deve — dialogare con il mondo reale, non restare chiuso nel proprio linguaggio. È stato un incontro di visioni, non solo un riconoscimento. E ci ha dato la spinta per continuare a raccontare, con rispetto e coraggio, ciò che spesso si preferisce non vedere.

Se dovessi definire Brothers con tre parole, quali useresti? E perché?

Viscerale. Corale. Necessario.

Viscerale, perché Brothers non parla solo alla testa, ma entra nella pancia, nella carne, nei nervi. È un’esperienza emotiva, fisica, che tocca l’istinto prima del pensiero. Corale, perché non esiste un solo protagonista: la forza sta nella molteplicità, nelle voci che si intrecciano, si sovrappongono, si cercano. È un’opera collettiva, come lo è ogni trauma vissuto in comunità.

Necessario, perché non è uno spettacolo “piacevole”. È un atto urgente, un gesto politico e umano che vuole aprire una ferita per non farla marcire nel silenzio.

“Brothers” non è solo uno spettacolo: è un atto di presenza. Un gesto collettivo che ci ricorda che dietro ogni conflitto ci sono volti, corpi, respiri. Che la guerra non è mai lontana, se ci sono ancora storie da ascoltare e ferite da riconoscere come nostre. In un’epoca che anestetizza, questo progetto riapre il sentire. Lo fa con pudore e rabbia, con poesia e carne, con silenzi che parlano più di mille discorsi.

Ed è proprio questo il suo lascito più forte: la consapevolezza che ricordare non basta. Bisogna sentire, stare, testimoniare. Perché solo così possiamo continuare a dirci umani. Fratelli, non per nascita, ma per scelta.

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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