Storie di sogni spezzati, fotografie mai sviluppate e silenzi che inghiottono vite
Era un giorno di primavera. Il sole filtrava tra le foglie di un parco dimenticato, accarezzando i muri scrostati di un manicomio abbandonato. Luca, ventitré anni, appassionato di fotografia e silenzi, si era avventurato lì da solo, con uno zaino leggero, una torcia e la sua reflex. Quella mattina aveva scritto sul suo profilo: “Il bello si nasconde dove non guardiamo mai.” E aveva varcato la soglia. Non sarebbe mai più uscito.
Il fascino del proibito
L’esplorazione urbana – Urbex, per chi la pratica – è un fenomeno in crescita. Unisce lo spirito dell’avventura, la passione per la storia, il gusto per la fotografia decadente. Ex ospedali, fabbriche dismesse, villaggi fantasma, bunker, scuole invase dalla vegetazione. Luoghi dimenticati dal tempo, che custodiscono brandelli di memoria e mistero.
Per molti, l’Urbex è una fuga dal rumore del presente. Un modo per “sentire” i muri parlare.
Ma la linea tra meraviglia e tragedia è sottile come il legno marcio di un solaio.
Carlotta Celleno non è l’unica. C’è stata Maya, 19 anni, precipitata nel vuoto da un tetto industriale per un’inquadratura al tramonto.
Jérôme, 26, fotografo francese, rimasto senza ossigeno in un tunnel sotterraneo e ritrovato giorni dopo.
Tutti sapevano. Ma non abbastanza.
Perché l’Urbex non fa rumore. Non urla. È una lama silenziosa. Una porta che si richiude alle spalle e, se non stai attento, non si riapre più.
L’illusione dell’immortalità digitale
I social hanno amplificato la portata dell’Urbex. Su Instagram e TikTok proliferano scatti mozzafiato: scale sospese nel vuoto, stanze con letti ancora disfatti, luci soffuse filtrate da vetrate rotte. Tutto sembra poesia.
Ma dietro ogni “like” può nascondersi un’infezione da amianto, una caduta, un arresto. E spesso, dietro la fotocamera, una persona che voleva solo sentirsi viva.
Il corpo dimenticato nella bellezza
Quello che molti non dicono è che si può morire di Urbex.
Si muore di crolli, di silenzi, di incoscienza, di solitudine.
Si muore inseguendo la bellezza in luoghi dove la morte è rimasta a vegliare. Luoghi che raccontano dolori passati e che, se non rispettati, reclamano anche i presenti.
“Non toccare nulla. Non portare via nulla. Non lasciare traccia.”
È la regola d’oro dell’Urbex.
Ma c’è un’altra regola, non scritta: non lasciare indietro te stesso.
Non farti dimenticare da un muro. Non diventare parte del silenzio che volevi solo fotografare.
Serve rispetto. Serve consapevolezza. Serve una guida.
L’Urbex può essere potente, poetico, perfino terapeutico.
Ma va fatto con preparazione, in gruppo, con protezioni, con mappe, con buonsenso.
Non è un gioco. Non è una corsa al brivido. È un viaggio tra le rovine della memoria umana.
E ogni rovina merita rispetto. Anche tu.
Dedicato a chi è entrato, ma non è mai uscito. E a chi entra per raccontare, non per scomparire.