Lo Strappo

“Lo Strappo” al Teatro Trastevere per la regia e drammaturgia di Giulia Gennaro. Tra gli interpreti: Elena D’Agnolo-Foma Fomic-Letizia Martines.
 

L’opera si snoda all’interno di una narrazione avvincente e coinvolgente: una giovane donna milanese dal cuore infranto si trova al volante in direzione Roma e incontra un uomo rimasto in panne con la sua auto, anche lui interessato a raggiungere il prima possibile la capitale per un appuntamento estremamente importante per il quale è già in grave ritardo. La donna accetta e i due si mettono in viaggio, ma una serie di comportamenti sospetti dell’uomo le instillano il dubbio che il suo distinto passeggero possa in realtà essere un malintenzionato. Da quel momento, si sviluppa una reazione a catena di malintesi, che porteranno lo spettatore in un vero e proprio viaggio “mentale” dall’epilogo spiazzante , che rivelerà la vera natura della relazione tra questi due personaggi apparentemente estranei l’uno all’altro.

“Lo spettacolo – racconta Giulia Gennaro – nasce da un primo lavoro di studio supervisionato da Liv Ferracchiati in occasione del workshop per drammaturghi «Mi fa male l’autofiction». L’idea in origine era quella di parlare del rapporto edipico con un genitore affettivo, senza però portare in scena una dimensione necessariamente drammatica. A partire da questo, ho deciso di raccontare le conseguenze tragicomiche di una patologia psichiatrica, nata proprio da questa difficoltà nell’accettare l’abbandono. Per costruire i personaggi è stato necessario maturare un’esperienza sull’argomento, grazie al confronto con alcuni professionisti della salute mentale. Il tema mi è estremamente caro, perché nel corso della mia carriera ho potuto confrontarmi con molteplici tipi di utenza nell’ambito dell’emarginazione sociale, scoprendo una deprimente disinformazione che ancora oggi dipinge mostri e allontana dall’idea che tutti, in verità, siamo potenziali pazienti e portiamo dentro piccoli o grandi traumi che ci hanno reso le persone che siamo, con le nostre innumerevoli sfumature”. Abbiamo intervistato Giulia Gennaro, attrice, regista e scrittrice, che ci conduce all’interno della sua opera. La Gennaro è diplomata alla scuola triennale per operatori in counseling a mediazione corporea e teatrale Teatri Possibili di Milano. Nel corso degli anni, ha la fortuna di approfondire la sua formazione con maestri come Teresa e Andrzej Welminski, Claudio Tolcachir, Laura Pasetti, Andzik Kowalczyk, Maia Cornacchia, Rodrigo Morganti, Riccardo Mallus, Luciano Colavero, Marco Toscani, Giuseppe Capotondi, Liv Ferracchiati, Giancarlo Fares, Michele Placido e Pupi Avati.

Eppure, accade, che “Lo strappo” crei un viatico diverso, perché?

Dietro a questo incontro apparentemente fortuito tra i due protagonisti, si nasconde un processo profondo di autoconsapevolezza che li spinge verso un’evoluzione necessaria. Come tutti i cambiamenti, anche questo risulta costoso e allo stesso tempo urgente, per questa ragione ci saranno da investire emozioni profonde e qualche risata!

Che cosa significa: “Lo strappo” è perché parlarne?

Il nostro titolo ha numerosi significati. Quello più immediato è sicuramente sinonimo di traghettare qualcuno da un punto di partenza a un punto d’arrivo. Dare un passaggio, nel senso più stretto del termine.

Il significato più importante, però, è la separazione. Lo strappo inteso come scissione da qualcosa o qualcuno che, sino a quel momento, è stato totalizzante. Parlarne aiuta ad esorcizzare argomenti spinosi come le relazioni tossiche, la sindrome dell’abbandono e le patologie psichiatriche che vengono favorite proprio da questi tipi di trauma.

Nella vita tutto può accadere, un po’ come alla giovane donna milanese, e poi?

E poi, quando qualcosa accade, è importante che ci si prenda la responsabilità di non ignorare ciò che sta avvenendo. Questo è l’unico modo per stare davvero in un’esperienza nuova e cercare di non renderla vana.

La nostra protagonista, sin dall’inizio, vive in un vortice inarrestabile di confusione che apparentemente non le permette di dare un senso a ciò che le succede, ma sarà proprio quel vortice a diventarle amico, risucchiandola e sputandola fuori in una nuova veste, più adulta e consapevole.

Quanti malintenzionati rischiamo di incontrare?

In questa commedia le intenzioni malevole o semplicemente ambigue sono tante, di varia natura, e appartengono ad entrambi i protagonisti.

Lo spettatore non può che farsi travolgere dal dubbio e dal divertimento di dipanare la matassa, per capire di chi o di cosa si debba davvero avere paura.

Come fa la protagonista ad accorgersi che in quel compagno di viaggio qualcosa non va?

La sua palese ingenuità non le viene certo in aiuto, così come non le sarà d’aiuto il senso di solitudine che la indurrà a fare amicizia con uno sconosciuto. Arriveranno però le perplessità, grazie ai suggerimenti della sorella con la quale comunica durante il suo viaggio e a tutti i suoi campanelli d’allarme che suonano incessantemente nella sua testa e urlano a gran voce: qualcosa non va in lui o in me?

Quanto i malintesi cambiano la declinazione del percepito e del pensiero?

Il malinteso, generalmente, nasce da un punto profondo della nostra esperienza. Si parla di sensazioni, convenzioni e della memoria del corpo, che inevitabilmente ci fa giocare ad associare un linguaggio o un comportamento ad un certo tipo di persona.

Nel caso dei due protagonisti, tutto questo è estremamente enfatizzato, perché non è chiaro (e non lo sarà fino alla fine) dove termina il malinteso e comincia la pura fantasia.

L’epilogo è sorprendente?

Diciamo che l’epilogo è un respiro per lo spettatore. È l’opportunità di dare un senso a quello che davvero non poteva spiegarsi, senza che il corso degli eventi prendesse una piega decisamente inaspettata.

Come nasce l’idea di questo spettacolo?

Nasce da un lavoro di ricerca fatto con un gruppo di drammaturghi, guidato da uno dei più grandi del panorama teatrale contemporaneo, che è Liv Ferracchiati. Ci siamo incontrati a più riprese per lavorare sul concetto di autofiction, inteso come spunto per indagare le proprie storie di vita personali e, nel mio caso specifico, sono emersi i temi del rifiuto e dell’abbandono. Liv ha contribuito a farci sperimentare modi nuovi di trattare l’autobiografia, soprattutto traducendo i passaggi più didascalici in nuove chiavi di lettura, dove l’ironia diventa lo strumento vincente per veicolare anche i messaggi più scomodi.

A lei fa male l’autofiction?

Probabilmente l’autofiction diventa davvero efficace quando si è elaborato quel “male” che induce lo scrittore o il drammaturgo a consolarsi e crogiolarsi nelle proprie parole. Io sento di aver lavorato tanto da questo punto di vista e di aver imparato a riconoscere questo pericolo, affrontando l’autobiografia nei modi più disparati: dalla poesia al romanzo, dalla sceneggiatura alla drammaturgia teatrale. Non si può mai dire di essere immuni, ma averne consapevolezza è già un buon punto per produrre testi che non siano banalmente autocelebrativi.

Quale patologia psichiatrica racconta nell’opera?

In quest’opera si parla di psicosi o schizofrenia, ma in generale si parla di tutte le patologie psichiatriche che ancora oggi vengono ignorate da tanti e confinano chi ne soffre ai margini della società, per incapacità delle persone di entrare in relazione con quello che comunemente si definisce pazzo, folle o strano.

Perché addentrarsi nel mondo della psiche?

Essendo anche una counselor a mediazione corporea e teatrale, mi capita spesso di lavorare con chi è affetto da patologie di questo tipo. Questo succede grazie alla collaborazione con psicoterapeuti e medici psichiatri, che mi permettono di portare il teatro come strumento di condivisione nella relazione d’aiuto. È così che ho potuto scoprire quanto siano diffusi e mal conosciuti i sintomi di queste patologie e quanto spesso accada che siano sottovalutati proprio da chi li avverte e dai familiari o amici che li circondano. Da qui la volontà di parlarne a gran voce nella commedia e poter lanciare un appello d’inclusione e di cura.

Chi sono i suoi compagni di viaggio?

I miei compagni di viaggio sono artisti meravigliosi, che hanno saputo dare un tocco personale allo spettacolo e mi hanno supportata nella costruzione di un lavoro così importante, non facendo mai mancare professionalità e divertimento.

Elena D’Agnolo, attrice poliedrica e di grande personalità, Foma Fomic, genio del cantautorato milanese e attore impareggiabile per originalità e potenza espressiva e Letizia Martines, grande cantante e attrice in crescita esponenziale. Non potevo chiedere di meglio!

Progetti?

Le idee sono tantissime e la mia è una mente che si ferma troppo poco! Al momento cerco di dedicarmi con amore alla crescita di questo spettacolo e al lavoro con il cast, che confesso di voler tenere con me anche per altri progetti futuri.

Sogni?

Anche i sogni sono tanti e qualcuno è rimasto nel cassetto. Mi piacerebbe per esempio dare sempre più voce a chi non fa parte del mondo teatrale, ma ha vissuto e vuole condividere storie di vita importanti, lavorando a drammaturgie inedite che vorrei sicuramente continuare a proporre.

Desideri?

Se ne avessi tre, come nel caso di Aladino, farei presto: il primo è che il teatro continui a brillare, anziché spegnersi dietro a burocrazie e favoritismi. Il secondo è aver sempre qualcosa da dire e da imparare, senza esaurire l’entusiasmo che ho nel portare il mio lavoro in dimensioni nuove e magari più difficili. Il terzo, più carnale e terreno, è quello di raccogliere i frutti di tutto ciò che finora ho costruito con fatica e dedizione.

Bisogni?

Il bisogno è uno, chiaro e semplice: quello di essere ascoltati, come accade con questo spettacolo che vuole lanciare un messaggio importante, nel quale crediamo profondamente.

E poi?

E poi è tutto in divenire. Così come quando si costruisce uno spettacolo, non si dovrebbe mai mettere un punto. Tutto accade. Tutto cambia. L’importante è saper stare nell’esperienza e godersi quello che arriva.

Vuole aggiungere altro?

Un ringraziamento speciale ai miei compagni di viaggio, senza i quali tutto questo non sarebbe stato possibile.

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