“Io ed Elena” di Donatella Busini per la regia di Mauro Toscanelli con Donatella Busini e Ornella Lorenzano debutterà l’11 maggio al Teatro Trastevere. “Io ed Elena” è un dramma scritto da una donna che vede due personaggi femminili, una madre e una figlia, vomitarsi addosso rancori mai sopiti: la paura ossessiva di Giovanna (la madre) di invecchiare che la conduce alla ricerca maniacale di conferme da parte di un uomo ideale, e la follia conclamata quanto lucida di Elena (la figlia) che dialoga con il suo alter ego Blanche Dubois, mutuata dal testo “Un tram che si chiama desiderio” di T. Williams. In questa osmosi continuativa di rimpalli tra le due (o, si potrebbe dire, le tre), vi è il contraccolpo doloroso reciproco che ne deriva. L’incanto è il fulcro attorno a cui ruota la ricerca di madre e figlia; un incanto che si ricollega idealmente al desiderio sessuale della protagonista di Williams. Pur essendo una drammaturgia tutta al femminile, il testo rimanda continuamente a figure maschili, le quali sono a volte idealizzate, a volte evocate in quanto personaggi del doloroso passato o del torbido presente di Giovanna. Un dramma dove la Musica e il Teatro nel Teatro danno la dimensione di fluidità in cui agiscono la follia e la disperazione, fino al parto finale in cui la Consapevolezza viene alla luce, stendendo un velo definitivo e irreversibile sulla condizione umana delle due “donne”. Così racconta il regista Mauro Toscanelli: “Ho voluto allestire il dramma dandone un taglio visionario, dove la follia che si contorce aggrovigliata e confusa nella mente delle due donne ha come contrappeso il rigore e l’ordine delle figure geometriche “solide” che caratterizzano la scenografia. Mi piace pensare che chi vi assiste, sia preso per mano e condotto, attraverso le immagini agite e il tappeto musicale, nella penombra di un grembo materno ove tutto è sospeso, tutto è mellifluo, fluido, cangiante. In attesa del parto finale, quello in cui la Consapevolezza viene alla luce, stendendo un velo definitivo e irreversibile sulla condizione umana delle due donne”. Proseguendo a raccontarci questo suo lavoro con questa intensa intervista.
“Io ed Elena” debutterà l’11 maggio al Teatro Trastevere, ci può raccontare qualcosa di questo lavoro di Donatella Busini che sarà pure protagonista?
“Io ed Elena” viene scritto a cavallo tra il 2019 e 2020 da Donatella Busini, la quale me lo sottopose per curarne la regia. Già cominciammo tre anni fa a lavorarci sopra, effettuando casting per la scelta dell’antagonista e iniziando a fare le prime prove, ciclicamente interrotte dalla discontinuità dovuta alla pandemia. Fui molto colpito dalla struttura drammaturgica del testo e dalla tematica.
Chi è Elena?
Elena, nel testo, è la figlia di Giovanna. Ricoverata in una clinica psichiatrica, viene raccontata nel momento in cui torna a casa della madre, in uno dei suoi andirivieni con la clinica, carica di aspettative affettive nei suoi confronti. Purtroppo, la madre si trova in un momento particolarmente critico, poiché sta affrontando la sua vecchiaia in modo pessimo: abbigliandosi in modo eccentrico, uscendo continuamente con uomini occasionali che la deludono puntualmente ed è sempre attaccata al telefono cellulare come se fosse il suo ossigeno. Elena, dal canto suo, a differenza del passato, stavolta mostra progressivamente una consapevolezza e una lucidità più definite nei confronti della vita, la qual cosa getta sua madre ancor più nell’abisso del suo animo svuotato.
“Io” invece chi è?
L’ “Io” del titolo è volutamente lasciato in forma anonima poiché, in realtà, le protagoniste di questa pièce non sono due come potrebbe sembrare, bensì tre: la madre, sua figlia e Blanche, una bambola che si ricollega idealmente alla protagonista di “Un tram che si chiama desiderio” di Williams e che Elena tiene sempre con sé come un feticcio e a cui rivolge continuamente le sue riflessioni. È proprio grazie a Blanche e alla sua storia che Elena è riuscita nel tempo a trovare un suo equilibrio. In quell’ “Io”, pertanto, vi si può identificare Blanche o Giovanna le quali hanno molto in comune come vissuto.
Madre e figlia in un’unica persona, perché questa dicotomia?
Non solo madre e figlia, ma anche Blanche costituisce parte integrante di questa singolare trinità. Ciascuna delle tre, come delle Matrioske, contengono frammenti dell’altra e, nella dinamica della vicenda, si arriverà ad un inevitabile corto circuito che sfocerà nel ribaltamento dei ruoli: Giovanna, che all’inizio della vicenda narrata, sembra essere la più forte, una virago sgangherata che fagocita tutto ciò che le capita intorno, alla fine risulterà devastata dal confronto con la figlia, la quale invece, entrata in casa della madre con la sua remissività psicotica, ne esce trionfalmente consapevole e forte. Blanche in tutto questo rappresenta il sottile filo che le ha sempre divise, ma che, come in uno specchio, ha permesso loro di “vedersi” così come sono nella realtà.
Quanto è difficile il rapporto madre e figlia?
I rapporti filiali sono sempre delicati e spesso molto complicati. Non vi sono manuali delle istruzioni da consultare e forse è meglio così: come in tutti i clan e le tribù, anche nella famiglia vi sono dei ruoli e ogni ruolo comporta una propria responsabilità. E’ quando si altera il rapporto tra ruolo e responsabilità che cominciano i conflitti. Nel caso di Giovanna ed Elena, l’alterazione comincia quando il padre di Elena abbandona le due donne molti anni prima, creando un vuoto per entrambe, le quali tentano maldestramente di riempirlo ciascuna a suo modo: Giovanna con le sue stravaganze ed Elena con le sue psicosi e le sue nevrosi.
Perché si giunge a vomitarsi addosso sospesi, dolori, emozioni sopite?
La paura della verità. Se in un ambiente lavorativo si può scegliere di relazionarsi in maniera diplomatica evitando sapientemente il conflitto, in una famiglia non si deve essere diplomatici. Per natura, i membri di una famiglia, soprattutto quando convivono nello stesso ambiente, sono costretti ad essere perennemente “nudi” tra di loro: quando vi è un problema tra genitore e figlio occorre avere l’obbligo di sviscerarlo immediatamente, altrimenti è come se venisse messo da parte in un immaginario ripostiglio in cui si ammonticchieranno via via tutti gli irrisolti familiari. Fino a quando il ripostiglio esplode per incapienza e, a quel punto, è troppo tardi per rimediare, poiché nel frattempo si sarà elevata una coltre di cristallo che separerà i familiari in modo irreversibile e drammatico.
Cosa racconta la paura ossessiva di Giovanna (la madre) di invecchiare?
Giovanna, come già accennato, vuole spararsi le ultime cartucce in qualità di femmina desiderata. Agli occhi di Elena e dello spettatore appare come una ridicola ultracinquantenne che racconta (e si racconta) un mucchio di fandonie sul suo conto per apparire ancora piacente, per non parlare del suo abbigliamento. Il dramma è che fa tutto questo in modo ossessivo, restando appiccicata giorno e notte al suo cellulare, nella speranza che qualcuno possa amarla, possa prendersi cura di lei. Un uomo normale, insomma. Non comprende che è proprio il suo atteggiamento a repellere il sesso maschile, ad invischiarla in situazioni equivoche talvolta pericolose.
Esiste l’uomo ideale?
Qui ritorna fondamentale la figura di Blanche Dubois (alter ego di Giovanna e, in parte, anche di Elena): nel dramma di Williams la donna, con un vissuto da maniaca ossessiva e macchiato da sregolatezze, si trasferisce a casa della sorella per trovare un riscatto alla propria vita, magari con l’incontro dell’uomo ideale. Ma il passato emerge a poco a poco, travolgendo ogni suo nobile desiderio e, infine, devastandola totalmente. Anche Giovanna fino all’ultimo crede di poter trovare il suo ideale di uomo, ma viene puntualmente delusa e la sentenza finale viene pronunciata proprio da Elena, la quale non focalizza il suo ideale negli uomini (poiché saggiamente realizza che non esiste), bensì nella gentilezza e nel valore della diversità.
Cosa accade ad Elena per essere una donna follemente lucida?
Sicuramente il suo ricovero nella clinica psichiatrica, a stretto contatto con chi la lucidità l’ha persa completamente, l’aiuta, insieme alla lettura del testo di Williams e alla presenza ancorché posticcia di Blanche, a comprendere l’autenticità dei valori della vita. E quando si imbatte in Giovanna, con il suo continuo sbevacchiare, stare ore al telefono, preoccuparsi di quale abito indossare, la travolge con le sue opinioni in una forma apparentemente folle, ma sostanzialmente lucida e chiara.
La follia come fa ad essere lucida?
Per Shakespeare la figura del “Fool” è tutt’altro che secondaria o superficiale. Il folle rappresenta colui che è depositario della Verità; solo che, nella forma, può apparire bizzarro, goffo, eccessivo nelle sue manifestazioni verbali o fisiche. Insomma, per la società, il folle costituisce un anormale. La sua lucidità consiste nell’esprimere il reale stato delle cose senza censure, senza veli o controllo. E qui, mi ricollego idealmente a quanto affermato in precedenza sulla pericolosità della repressione emotiva e dialogica all’interno dei rapporti familiari, che si traduce inevitabilmente in scontri estremamente dolorosi.
L’alter ego cosa rappresenta per Elena?
Spesso i pazienti che soffrono della patologia di Elena (disregolazione del sé, del comportamento ed interpersonale) scelgono un alter ego, un feticcio con cui instaurare un rapporto che, in realtà, è con se stessi. Non hanno gli strumenti per costruirsi un sé, un’identità e pertanto ne scelgono un’altra, la quale non potrà certo essere una persona fisica, altrimenti rischierebbero eventuali conflitti o problematiche connesse alla diversità del carattere. Ecco allora che un oggetto inanimato, come lo è Blanche per Elena, diventa lo specchio con cui ritrovare sé stessi e parlare, confidarsi, esprimere le proprie opinioni. Di sicuro il feticcio non si rivolgerà mai contro il paziente, non lo sgriderà mai, non gli volterà mai le spalle, non gli farà mai del male. Sarà sempre una garanzia di ascolto fedele. Non solo: l’oggetto inanimato, a differenza della persona realmente esistente, lo puoi distruggere.
Perché l’incanto è il fulcro attorno a cui ruota la ricerca di madre e figlia?
La radice di incanto è la stessa di incantesimo. E, come per quest’ultimo, anche l’incanto presuppone qualcosa di magico. Quando ci si incanta ad osservare qualcosa di straordinario è come se fossimo per un istante sospesi al di fuori della realtà. In “Io ed Elena” madre e figlia ricercano continuamente questa bolla di sospensione che le conduca, ciascuna a suo modo e per i propri obiettivi, fuori dal mondo reale che le ha lacerate nel profondo.
Che cosa si intende qui per incanto?
Per Giovanna l’incanto è creare meraviglia e regalarla al prossimo, ma non sappiamo se stia recitando mentre lo afferma o se lo desidera realmente. Per Elena, orfana dell’affetto paterno e materno e vittima dell’arroganza altrui, è la gentilezza, l’altruismo, la compassione. Per entrambe quindi l’incanto si traduce in un desiderio irresistibile di Amore.
Le figure maschili hanno un ruolo in questa drammaturgia?
Gli uomini vengono spesso evocati nel testo. Si accenna alla figura del padre maledetto che ha abbandonato le due donne quando Elena era piccola; all’uomo occasionale bastardo che ha maltrattato fisicamente Giovanna in una delle sue molteplici avventure a sfondo sessuale; all’uomo immaginario che l’attrice Giovanna richiama in un suo pezzo recitato e che, guarda caso, è morto. Ed Elena accenna anche al “…bruto selvaggio che ci ha fatto tanto male…” il quale, oltre ad incarnare l’universo maschile, si riferisce implicitamente alla collettività in generale.
Quanta fluidità emozionale c’è in questo lavoro?
In questo lavoro, come in tutti quelli da me diretti, sono stati necessari quattro ingredienti primari: l’armonia tra tutti i lavoratori del team artistico e tecnico (ovvero empatia, assenza assoluta di egocentrismi o individualismi e ascolto reciproco); l’istinto (agire senza giudizio sui personaggi affidandosi solo alla “pancia”, senza autocensure); il pensiero (che scaturisce da un precedente lavoro sul personaggio e che consiste nel crearsi idealmente un movente per ciascuna battuta, movimento o gesto che vengono esternati; il sentire diffuso (ovvero percepire continuamente, con tutti i sensi all’erta, ciò che accade sul palco e in prova). In particolare, questo lavoro, essendo un dramma ad alto tasso emotivo, ha richiesto una concentrazione massima di tutti questi fattori.
Qual è il messaggio che vuole inviare al pubblico?
Ho il desiderio che il pubblico rifletta su quanto la verità faccia paura. Se, ad esempio, pensiamo ad un pazzo che gira per strada gridando frasi apparentemente senza senso o a un clochard puzzolente che si avvicina a noi biascicando parole, la prima emozione che ci assale è la paura, ma non solo che quel reietto possa farci del male, ma perché, puntandoci con i suoi occhi da folle, possa leggerci dentro l’anima e proferire qualcosa su di noi che ci fa vergognare agli occhi degli altri o, peggio, che non vogliamo sentire. Come già detto, il diverso, il folle, non hanno censure e pertanto possono “denudarci” nei confronti del mondo.
Chi sono i suoi compagni di viaggio?
I compagni di viaggio, ad ogni lavoro, me li “capo” uno per uno attentamente. In questo caso la scelta delle attrici è caduta, per il ruolo di Giovanna, sulla stessa autrice del testo, la quale tre anni fa doveva interpretare Elena, poi nel corso del tempo abbiamo entrambi maturato l’idea che sarebbe stato più credibile e naturale farle interpretare il ruolo della madre. Per Elena, invece, ho pensato ad Ornella Lorenzano, un’attrice con la quale avevo avuto modo di lavorare in passato e che, proprio in quell’occasione, mi aveva intrigato per il suo approccio professionale. Come aiuto regia ho voluto con me Francesco Maggi, attore e performer eclettico e collaborativo. Per la parte tecnica l’elenco sarebbe lungo, ma ci tengo a sottolineare che ciascun appartenente al team lavorativo, ancor prima di contribuire con il suo proprio talento, è necessario che possegga doti e virtù personali che lo portino con umiltà a concentrarsi esclusivamente sull’ottima resa del risultato finale.
Particolare la scelta dell’autrice di essere anche attrice della sua opera?
Con Donatella ci conosciamo da diversi anni ormai. Ho sempre amato il suo modo di scrivere. Le sue storie sono intrise di tormento, ma è un tormento interiore a tinte forti che esplode all’improvviso lasciando i personaggi coinvolti con una coscienza più solida e strutturata. Il significato comune delle sue opere sta proprio nel percorso di rivoluzione umana che ciascun essere dovrebbe intraprendere nella propria vita, senza ricorrere a gabbie sociali come la religione o le dipendenze. Altri elementi comuni della sua poetica sono la ricerca della libertà come affermazione della propria identità e l’inutilità delle diverse forme di censura.
Da tutto ciò si evince la tempra di una donna molto tenace e determinata, ma umile nel riconoscere i propri limiti e questo mi ha affascinato nel corso del tempo. La scelta di coinvolgerla come attrice ha una duplice matrice: da un lato, avendo disegnato essa stessa con estrema perizia due personaggi forti come Elena e Giovanna, ho avuto fin da subito la certezza che potesse incarnarli al meglio; dall’altro perché amo le sfide e dirigere colei che ha partorito il suo personaggio mi entusiasma e mi dà ancor più slancio nel mio impegno registico.
L’autrice che ruolo interpreta?
Donatella interpreta il ruolo di Giovanna, la madre. Della quale ha il piglio tuttofare, l’ipercinesia, la determinazione, l’attitudine al comando. Ma, chi la conosce bene, sa che lo scudo talvolta si incrina e tra quelle crepe si insinua la Verità.
In questo lavoro quanto di personale si amalgama con la fantasia?
In teatro si rappresenta la vita. Che sia la nostra o quella fantasticata degli altri poco importa. Non essendo io l’autore posso dire ben poco su quanto di personale ci sia nel testo scritto. Posso, invece, assicurare che chi assisterà allo spettacolo e mi conosce, scoprirà che c’è molto del mio mondo nel modo di far fluire il racconto della storia.
Andrete in tour?
Nella prossima stagione è sicuro che faremo “vivere” ancora “Io ed Elena” in varie parti d’Italia tra cui, confermata in questi giorni, la piazza di Napoli.
Progetti?
Una caterva. Patroni Griffi mi diceva sempre che il Teatro è cattivo. A distanza di più di venti anni ho capito il senso di quella frase. Data la precarietà del nostro mestiere non bisogna mai farsi cogliere impreparati e con il tempo ho imparato a programmare per tempo tutta la stagione successiva in modo da assicurarmi il lavoro con anticipo.
Tra i tanti progetti già fissati, ve n’è uno sempre con Ipazia Production e sempre scritto dalla Busini, che racconta la storia di Vivien Leigh, la quale è la sublime protagonista del film tratto dal dramma di Tennessee Williams e che fa da sfondo ad “Io ed Elena”.
Quando si dice la coincidenza…