Dal 27 febbraio al 2 marzo al Teatro Trastevere in Roma andrà in scena “Il nero non sfina”. Monologhi incivili di borghesi contemporanei esauriti a cura della Compagnia POLITICALLY SCORRECT. Scritto e diretto da Sara Ceracchi. Con: Riccardo Frezza, Samuel Di Clemente, Clea Scala, Alessio Romanazzi.
Dal lassismo alle relazioni sentimentali, dalla fede religiosa al fenomeno della pubblicità, dalle tradizioni e le abitudini, che si scontrano coi diktat del politicamente corretto, all’ossessione di trattenere il tempo: “IL NERO NON SFINA” è incentrato su molte delle nevrosi che caratterizzano la vita contemporanea della classe media occidentale, tratteggiate in una serie di monologhi comico/umoristici.
“IL NERO NON SFINA” comprende undici monologhi scelti dall’omonima raccolta di Sara Ceracchi. I testi, squisitamente umoristici, raccontano la classe media occidentale, una fascia sociale ormai molto ampia, schiacciata tra il benessere che offre la società dei consumi e la dipendenza annichilente da questa, in tutti gli ambiti della vita. Ogni performance è intervallata da brani musicali che anticipano le tematiche dei monologhi, o ironizzano su di esse, ed è arricchita da interazioni e siparietti tra tutti i componenti della Compagnia. L’armonia umana tra Sara Ceracchi e gli attori ha permesso alla regista di assegnare i brani in base alla personalità, lo stile interpretativo e la presenza scenica di ciascun interprete. La scenografia comprende una lavagna classica in ardesia dove il“conduttore” dello spettacolo scrive titoli dei brani e nome del monologhista; gli attori vestono in maniera smaccatamente classica e borghese (gli uomini in frac e papillon, la donna in abito anni ’50 con gonna a ruota), per sottolineare e ironizzare sul contrasto tra le sicurezze anche più superficiali, ovvero anche quelle del costume della classe sociale in questione, e le tematiche disturbanti affrontate in ciascun monologo. Abbiamo intervistato Sara Ceracchi.
Qual è stata la sua ispirazione principale per creare “IL NERO NON SFINA”?
Dopo l’uscita del mio primo libro, “Felici e Contenti”, uscito nel 2020, che era una raccolta di saggi umoristici sui rapporti uomini/donne che ha molto divertito i lettori, ho iniziato a scrivere anche di altri argomenti, seguendo le stesse cifre creative. Contemporaneamente ho conosciuto Samuel Di Clemente, che è un vero talento attoriale umoristico (attenzione, non comico, umoristico), il quale, leggendomeli e interpretandoli, mi ha fatto rendere conto che i miei testi potevano essere rappresentati a teatro. Inizialmente avevo pensato a organizzare una rassegna di monologhi umoristici, con più autori e attori, constatando però che di scrittori inclini all’umorismo non ce ne sono moltissimi, così come di interpreti in grado di esprimere testi di questo genere, così ho deciso che avrei confezionato uno spettacolo di soli testi miei, con attori selezionati.
Come ha selezionato gli undici monologhi dall’omonima raccolta per questo spettacolo?
Ho cercato di scegliere quelli che trattassero temi diversi, ovvero toccassero un po’ tutti gli aspetti della contemporaneità senza somigliarsi troppo tra loro. Per esempio ne ho due che trattano uno del Veganesimo e uno della Spesa, che pur essendo argomenti diversi hanno dei punti in comune (trattando entrambi di alimentazione) che li facevano somigliare. Ho intenzione di allestire una seconda edizione dello spettacolo, però, che conterrà altri testi, inediti: chissà, forse per il prossimo anno.
In che modo la sua scrittura riflette le nevrosi della classe media occidentale contemporanea?
Cercherò di riassumere un discorso che in realtà è molto complesso: checché se ne dica, esistono sia la “normalità” che la “maggioranza” degli individui. Cioè, la nostra società è fatta di un macrogruppo che lavora, si crea una famiglia, vive di certezze che, benché smarcate in molti modi, si rivelano granitiche e impossibili (inutili) da bypassare. La classe media (che è ormai una forbice molto ampia) occidentale si trova però, adesso, a voler continuare e difendere uno stile di esistenza che sembrava assodato e che invece è minacciato da tutti gli epocali cambiamenti che stiamo attraversando: ciò che avrebbe dovuto facilitarci la vita, come internet, in realtà ce l’ha infinitamente complicata. Uno strumento che avrebbe potuto stimolare la conoscenza, è diventato un mezzo d’informazione superficiale e pericoloso: pensiamo alle campagne antivaccinali, a quanto la Rete abbia reso tutti più ignoranti e distratti, a quanto abbia semplificato la politica al punto di condurci a scelte a dir poco dannose. In piccolo, pensiamo per esempio a quanto lo smartphone abbia cambiato le relazioni affettive, a quanto le abbia svuotate di confronto e concretezza. Tutto questo e molto altro, soprattutto per chi è nato in un mondo più lento e analogico, è senz’altro fonte di nevrosi e smarrimento.
Qual è il significato più profondo dietro il titolo “IL NERO NON SFINA”?
Non c’è in realtà nessun significato profondo, si tratta semplicemente del titolo di uno dei monologhi, che è quello di tutta la raccolta e che dà inizio allo spettacolo (dopo l’introduzione).
Come bilancia l’umorismo con la critica sociale nei suoi monologhi?
Pirandello diceva che l’umorismo “…può considerarsi come un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione: erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta”: l’approccio umoristico è quanto di più adatto a riflettere su argomenti che riguardano tutti, a rivoltarli, a considerarli da più punti di vista.
Qual è stata la sfida più grande nel dirigere questo spettacolo?
Per gli attori sicuramente fare appello a tutte le loro capacità mnemoniche, perché si tratta di testi piuttosto lunghi, benché all’ascolto scorrano rapidamente. Per me è stata trovare il modo di controbilanciare uno spettacolo che rischiava di apparire statico, con parentesi smaccatamente comiche e interazioni tra gli attori che riescono a evitare questo rischio.
Come ha lavorato con gli attori per assegnare i monologhi in base alle loro personalità e stili interpretativi?
I miei attori sono principalmente persone che conosco profondamente, e con le quali ho collaborato e collaboro anche per altri progetti cinematografici e teatrali, quindi non è stato difficile per me individuare i testi che più si sarebbero adattati alla loro personalità. Inoltre, ho la presunzione di credere di saper riconoscere le potenzialità delle persone prima che le scoprano da loro, ovvero ho sempre saputo evidenziare i talenti e le inclinazioni degli attori con cui ho avuto la fortuna e l’onore di collaborare.
Quale ruolo gioca la musica nello spettacolo e come l’ha scelta?
La musica non fa che intermezzare i brani e anticiparli, sottolineandone l’argomento o facendo da contrappunto ai concetti che si esporranno. In particolare “Ma cos’è questa crisi” di Rodolfo De Angelis, che è la “sigla” dello spettacolo, forse ben rappresenta la serenità di una classe borghese ingenua e inconsapevole di tutto, attenta solo al proprio benessere e priva di sensi di colpa, che ormai non è che un lontano ricordo.
Perché ha deciso di includere una lavagna classica in ardesia come elemento scenografico?
Sempre per movimentare lo spettacolo. Il conduttore (Riccardo Frezza) la utilizza per scrivere i titoli dei brani e i nomi degli interpreti; inoltre ci fa da quinta, ovvero dietro possiamo nasconderci gli oggetti di scena che utilizziamo di volta in volta, e poi, essendo l’unico elemento di scena rende lo spettacolo praticamente prêt à porter e trasportabile ovunque.
Qual è il significato dietro la scelta dei costumi smaccatamente classici e borghesi?
Il classico è qualcosa che non smette mai di valere, attraverso i secoli. Gli attori rappresentano appunto dei personaggi i cui principi cercano disperatamente di attraversare e oltrepassare le mode passeggere, esattamente come i vestiti che indossano.
Come affronta il tema del politicamente corretto nei suoi monologhi?
Non mi pongo il problema, infatti non è un caso se la mia compagnia si chiama “Politically scorrect”, e lo spettacolo comprende un monologo con questo titolo. Credo che restando nei limiti della decenza e del rispetto, un artista non debba chiedere il permesso per dire quel che vuole, se non altro perché un autore – ma in generale questo dovrebbero farlo tutti, si prende sempre la responsabilità di quello che esprime -. Sta poi all’intelligenza di chi ascolta distinguere l’umorismo e l’ironia dagli insulti.
In che modo il suo lavoro esplora la tensione tra il benessere offerto dalla società dei consumi e la dipendenza da essa?
Come dicevo all’inizio, noi stiamo attraversando un momento di enormi cambiamenti, dai agevolazioni tecnologiche, di conquiste sociali sempre più capillari, ma spesso le soluzioni a vecchi problemi non fanno che generarne di nuovi.
Quali sono le tematiche più “disturbanti” che affronta nei monologhi e perché ha scelto di includerle?
Perché nell’umorismo e nella comicità non si può prescindere da verità e dolore, come dice John Vorhaus. Evitando di andare a fondo, evitando di toccare argomenti che ci renderebbero non abbastanza popolari, e cercando di essere per forza universali, non si ottiene che di essere banali e ripetere sempre il già detto. In un mondo dove si grida al sessismo e all’iniquità perché in autogrill ci sono i bagni per gli uomini e i bagni per le donne, credo sia necessario ricominciare a stimolare il pensiero critico degli individui, altrimenti, mentre ci perdiamo in baggianate, il mondo cade in mano a chi davvero non va per il sottile.
Come spera che il pubblico reagisca allo spettacolo e quali riflessioni vorrebbe suscitare?
Io sono una scrittrice e regista di commedie, quindi mi auguro sempre che il pubblico si diverta, voglio sentirlo ridere, perché quella è la mia droga: ma proprio per tutto quanto ho già espresso, spero che la risata sia un viatico gradevole alle riflessioni che propongo coi miei monologhi.
In che modo “IL NERO NON SFINA” si distingue da altri spettacoli di critica sociale contemporanea?
Appunto, non cercando di compiacere nessuno.