Quando l’amore diventa dominio, quando il legame si trasforma in prigione, quando la morte diventa controllo definitivo
Non è amore, è potere. Non è passione, è controllo. Non è gelosia, è annientamento. Il femminicidio non è mai un gesto improvviso, né una “tragedia della gelosia”, come spesso viene raccontato. È il culmine di un processo perverso e progressivo, che inizia molto prima dell’ultimo atto: inizia nelle parole, nei gesti, negli sguardi che non rispettano più, ma dominano.
Il possesso come matrice del delitto
Nella mente del femminicida, la donna non è un essere autonomo, ma un’estensione narcisistica di sé. Non è amata. È possessa. È controllata. È manipolata. E se cerca di sottrarsi a quel giogo invisibile, la reazione diventa esplosiva, letale, definitiva. Il femminicidio non nasce da uno scatto improvviso: nasce dal terrore del femminicida di perdere il dominio su ciò che considera “suo”.
Il ciclo della violenza: amore, tensione, esplosione, pentimento
La psicologia relazionale ci mostra un pattern ricorrente nelle dinamiche violente:
1. Fase della seduzione: il carnefice è affascinante, protettivo, persuasivo.
2. Fase della tensione: il controllo si insinua nella quotidianità: chi vedi, dove vai, con chi parli.
3. Fase della violenza: scoppio fisico o psicologico. Minacce, botte, ricatti.
4. Fase del pentimento: lacrime, scuse, regali, promesse. E poi… si ricomincia.
Una spirale silenziosa che spesso si stringe fino al soffocamento. E, a volte, fino all’omicidio.
Il narcisismo maligno e la fragilità del carnefice
Dietro il femminicida spesso si cela un narcisismo patologico, un’identità fragile che si regge solo sul dominio dell’altro. Il carnefice ha un bisogno viscerale di controllo:
• sul corpo,
• sulle emozioni,
• sulle scelte della vittima.
Quando questa si emancipa, si ribella, tenta di uscire da quella gabbia, il narcisismo collassa. E allora l’unica via che resta al carnefice è annientare l’oggetto della perdita. Uccidere la donna significa riprendere il potere. Rendere eterna la subordinazione.
Segnali da non ignorare
Molti femminicidi potevano essere prevenuti. La violenza ha sempre un crescendo, sempre segnali premonitori:
• Controllo ossessivo
• Isolamento sociale
• Minacce velate
• Svalutazione costante
• Manipolazione emotiva
• Episodi di aggressività minimizzati
Il problema è che spesso questi comportamenti non vengono riconosciuti come pericolosi, ma giustificati come “gelosia”, “amore passionale”, “carattere difficile”. Ma l’amore non imprigiona. L’amore non fa paura. L’amore non uccide.
La responsabilità culturale
Il femminicidio non è solo un fatto individuale. È anche un prodotto culturale: di stereotipi, di ruoli di genere, di una società che ancora oggi non educa all’affettività sana, ma al possesso travestito da romanticismo. Per questo, la criminologia non deve solo analizzare il crimine. Deve prevenire il contesto che lo rende possibile.
La voce prima del silenzio
Ogni donna uccisa aveva già parlato, in qualche modo. Con uno sguardo impaurito. Con un messaggio a un’amica. Con un gesto di chiusura che nessuno ha voluto vedere. La vera sfida criminologica è ascoltare prima che il sangue cada sul pavimento. Leggere i segni prima che diventino epitaffi. Intervenire prima che sia troppo tardi. Perché dietro ogni femminicidio c’è sempre un’occasione mancata di salvezza.