Essere giornalista a Pluckley è un po’ come essere investigatore privato in un monastero: tutto sommato inutile, spesso noioso, ma con improvvisi picchi di follia che ti fanno rivalutare la tua carriera ogni cinque minuti.
Quando da giovane mi immaginavo nel mondo del giornalismo, pensavo a scoop sensazionali, indagini sotto copertura, interviste esclusive. Poi la vita mi ha messo una penna in mano… e mi ha assegnato la rubrica settimanale “Notizie dal pollaio”.
Scrivere per il Daily Whisper, il nostro piccolo giornale locale, significa dover trattare con lo stesso pathos sia l’apparizione della Dama Nera sul sentiero dei ciliegi che l’inaugurazione del nuovo cassonetto intelligente per la raccolta differenziata. Una volta ho ricevuto una lettera indignata perché avevo definito il piccione di Mr. Cooper “grasso” invece di “ben nutrito”. Non sto scherzando.
Il direttore, Mr. Jenkins, è un nostalgico della carta stampata, un uomo convinto che le breaking news siano sopravvalutate e che il vero giornalismo si faccia con inchiostro e pazienza. Il suo motto è: “Pippa, le storie sono ovunque… anche nel concorso di torta di carote.” E così mi ritrovo spesso a intervistare signore in grembiule che mi raccontano le loro ricette come se stessero svelando il segreto di Stato.
Una volta ho scritto un reportage di sei colonne sulla fuga di una mucca particolarmente intraprendente. Titolo: “Bovino ribelle semina il panico in via dei Narcisi”. L’articolo ha ricevuto più commenti di tutti i miei pezzi sulla viabilità, le tasse comunali e il progetto del nuovo parcheggio multipiano messi insieme.
Ma il vero momento in cui ho toccato il fondo è stato quando mi hanno chiesto di seguire la conferenza stampa di… un apicoltore. Due ore a parlare di favi, sciami e vita dell’ape regina. Io volevo solo sciogliermi nel miele. L’apicoltore, peraltro, era convinto che io fossi interessata a lui più che alle api. Ha concluso l’intervista con un occhiolino e un “Se vuoi, ti faccio vedere il mio alveare personale”. Sono corsa via come se mi avesse punto uno sciame intero.
Eppure, in mezzo a tutto questo apparente nonsense, ci sono piccole perle. Storie vere, tenere, buffe. Come la signora Edith che ha festeggiato 100 anni e ha chiesto di essere intervistata solo se poteva indossare il suo cappello da piume. O il ragazzino del villaggio che ha raccolto fondi per comprare un’altalena per i bambini disabili. Sono momenti che ti scaldano il cuore… tra una sagra delle marmellate e una gara di ortensie.
E poi ci sono gli articoli miei, quelli del blog, dove finalmente posso raccontare la realtà senza filtri, senza cronaca sterile, ma con tutta la verità del mio disordine interiore e delle mie esperienze tragicomiche. E lì, sì, mi sento giornalista davvero. Una cronista del caos quotidiano, della solitudine condivisa, del cetriolo che galleggia nei sentimenti.
Alla fine, ho capito che forse non serve scrivere del G7 per sentirsi utili. A volte basta raccontare una zucca, un tè con Vivian, un disastro amoroso o un dialogo con Rachel per sentirsi parte di qualcosa. Perché anche le piccole storie, se raccontate con il cuore (e una spruzzata di gin), possono diventare grandi.