Ci sono storie che ti arrivano dritte al cuore, che non hanno bisogno di effetti speciali o grandi proclami, perché sono vere. Crude. Profonde. Storie che parlano di dolore, ma anche di rinascita. Di paura, ma anche di ironia. Di vita, nella sua forma più autentica.

“Da fuori tutto bene” è una di quelle storie. Un titolo che è una maschera, che tutti noi abbiamo indossato almeno una volta. Un’apparenza di normalità sotto cui si nascondono ferite, cicatrici, battaglie silenziose che spesso nessuno vede… ma che urlano forte dentro.

Quella che stiamo per raccontare non è solo la storia di una malattia. È il viaggio di una donna che ha scelto di affrontare il cancro non solo con forza, ma con leggerezza. Con dissacrante ironia. Con il coraggio di dire ciò che spesso resta taciuto. Di ridere, persino, dove altri sussurrano.

Giulia ci accompagna nel cuore pulsante di un’esperienza personale che diventa collettiva, con uno spettacolo teatrale capace di trasformare il dolore in racconto, la paura in riflessione, la fragilità in potenza.

Questa non è solo un’intervista. È uno spazio di verità. Di emozione. Di vita vissuta.

Ascoltate bene… perché tra le righe, tra una risata e una lacrima, c’è tutto ciò che spesso non abbiamo il coraggio di dire. E che oggi, finalmente, trova voce.

Giulia, “Da fuori tutto bene” sembra un titolo che racchiude una grande verità, quella di nascondere le difficoltà dietro un’apparente normalità. Raccontaci di più?

Beh, ognuno di noi ha uno scudo dietro il quale si nasconde, nasconde le sue fragilità. Per la mia esperienza personale, la narrazione del cancro alimenta questo scudo perché la società ci vuole “guerriere”, ma in realtà vorremmo solo convivere col cambiamento che il cancro porta con sé. Senza scudi e occhi puntati.

Lo spettacolo affronta un tema delicato come il cancro con dramma e umorismo. Come hai trovato l’equilibrio tra queste due componenti e perché hai scelto di usare la comicità dissacrante?

Penso da sempre che una risata ben assestata possa far passare certi concetti e attivare certe riflessioni con molta più efficacia di un dramma strappalacrime e poi, come pensava anche Kubrick quando scriveva il suo Dottor Stranamore, ogni situazione che si può raccontare con tono epico porta inevitabilmente con sé un lato comico che va solo tirato fuori. Io penso che si possa ridere di ogni cosa, basta farlo nel modo giusto.

Il sottotitolo “Il can can del cancro” evoca un’immagine vivace e inaspettata. Come si lega questa idea di movimento e di energia con l’esperienza della malattia?

In realtà il rimando al can can è più un richiamo al caos, alle mille ballerine con le gonne ampie e le piume che si muovono senza sosta sul palco creando un vortice colorato che fa perdere la testa! Lo spettacolo, nell’idea originale mia e di Daniele Fabbri, si sarebbe dovuto intitolare “Cancancancro”, proprio per un rimando alla sensazione della diagnosi che non ti aspetti: un ottovolante dentro uno shaker da cocktail, ma poi abbiamo pensato che fosse un’immagine troppo “forte”. Però è un peccato…suonava così bene!

Nel testo si parla di un’immagine paterna legata al movimento dei giocatori di pallanuoto. Come ha influenzato questa immagine il tuo modo di affrontare la malattia e di portarla in scena?

Io e mio padre siamo molto simili, abbiamo lo stesso spirito con cui affrontiamo il mondo: scherziamo su tutto e cerchiamo sempre di alleggerire le situazioni, anche le più drammatiche. Così quando ho cominciato a scrivere il diario della malattia da cui sono tratti molti dei testi che porto in scena (e che si possono ascoltare nel podcast), mi sono tornati in mente molti dei suoi insegnamenti, tra cui quello di come tenere entrambe le mani libere per stare a galla. Trovo che sia l’immagine giusta per descrivere la sensazione di affogare in acque non chiare e la necessità di avere le mani libere per appigliarti a qualcosa, qualsiasi cosa.

“Da fuori tutto bene” è una storia vera e personale. Qual è stata la sfida più grande nel trasformare un’esperienza così intima in uno spettacolo teatrale?

Sicuramente avere il coraggio di esporsi, non avere paura di abbattere lo scudo protettivo (o comunque fargli delle crepe) per tirare fuori pensieri, racconti, riflessioni anche molto profonde. Raccontare sé stesse senza sovrastrutture non è mai facile. In questo è stato fondamentale il lavoro fatto con Daniele Fabbri (che ha molta stand up comedy nelle gambe, tanto racconto di se stesso senza filtri e un eccezionale istinto per la battuta fulminante!) ancora prima di scrivere lo spettacolo: abbiamo passato un paio d’anni a fare brainstorming, io a raccontare e piangere e lui a prendere appunti o registrare…detto così sembra terribile, invece è stato cruciale per tirare fuori tutto e mettere in fila i pensieri!

Le note di regia sottolineano come la malattia renda difficili le relazioni. Come hai affrontato questo aspetto nello spettacolo e cosa speri che il pubblico porti a casa su questo tema?

Questo è forse il tema più difficile da affrontare. Quando scopri di avere una malattia che ti colpisce nel profondo, nella vita intima e sessuale, come un cancro al seno, le relazioni diventano tese e fragili perché sai di avere qualcosa dentro di te che fa stare male o impaurisce gli altri, non perché sono cattivi, ma perché non sanno come trattare la materia e spesso si rifugiano dietro alle convenzioni o alle frasi fatte….e non sono molto di supporto. Io mi auguro che alla fine dello spettacolo rimangano solo cose belle e magari qualche strumento in più per affrontare la cosa qualora capitasse (se volete grattarvi o fare gli scongiuri fatelo eh!)

Lo spettacolo tocca anche i tabù del linguaggio legato alla malattia. Pensi che il teatro possa essere un luogo privilegiato per rompere questi tabù e creare un dialogo più aperto?

Credo proprio di sì. Il teatro è un mezzo privilegiato perché c’è una relazione diretta tra chi sta recitando e lo spettatore in sala,un legame forte di complicità e il mezzo stesso permette un “qui e ora” di libertà poiché, parafrasando Shakespeare “è fatto della stessa sostanza dei sogni”, ovvero svanisce subito dopo che è accaduto. Per di più nello spettatore immerso in una sala buia con altre persone intorno che ascoltano, guardano e provano le stesse cose, si crea una sorta di spirito sodale e solidale per cui si sente protetto nell’affrontare anche gli argomenti più scomodi, senza paura!

Hai collaborato con l’Associazione “L’albero delle molte vite”. Come ha arricchito questa collaborazione il tuo lavoro e cosa ti ha insegnato?

L’associazione opera soprattutto sul territorio del Municipio X dove vivo e si occupa di sostegno alle/ai pazienti oncologici in moltissime forme. Quando le ho conosciute ho apprezzato molto il loro approccio, cioè quello di considerare il/la paziente non identificandolo con la sua malattia, ma una persona che oltre il cancro deve vivere e stare bene. Noi non siamo la nostra malattia, c’è tutto un mondo intorno! Con loro mi è stato subito chiaro.

https://www.lalberodellemoltevite.org/

Lo spettacolo è supportato da diversi enti e festival. Cosa significa per te avere questo sostegno e come ha influenzato la creazione dello spettacolo?

Il Teatro del Lido è sempre stato una seconda casa per me: lì ho trovato una comunità creativa e accogliente che mi ha adottata ormai 15 anni fa e che sostiene il mio lavoro, così come quello dell’associazione Valdrada, che gestisco insieme a Chiara Becchimanzi, Giorgia Conteduca e Monika Fabrizi. Per questo, è stato naturale chiedere loro supporto per la scrittura e la messa in scena dello spettacolo. Successivamente, grazie al contributo de Le Città Possibili Festival, abbiamo potuto godere di 10 giorni di residenza in teatro e del debutto all’interno della sua programmazione. Purtroppo, nel nostro Paese, il sostegno per le compagnie indipendenti è ancora scarso e ogni idea di spettacolo o performance rischia di naufragare o di essere dimenticata nel cassetto per anni, se non ci fossero festival o luoghi illuminati, come il Teatro del Lido, che investono in progetti ambiziosi e nelle giovani professionalità.

Le illustrazioni di The Sando e lo styling di Karma B contribuiscono all’estetica dello spettacolo. Come si integrano questi elementi visivi con la narrazione e le emozioni che vuoi trasmettere?

L’idea era quella di offrire al pubblico uno spettacolo completo, non solo un testo o un racconto, ma una performance a tutto tondo, pur mantenendo l’impianto originale del e senza tralasciare la componente estetica. Lo stile di The Sando mi ha colpita per il suo approccio ironico e fumettistico, perfettamente in sintonia con lo spirito dello spettacolo. Avevo già collaborato con le Karma B e ho pensato subito a loro per dare una forma al mio corpo in scena: ho sempre apprezzato il loro stile, capace di adattarsi tanto ai corpi conformi quanto a quelli non conformi (come il mio in questo momento), e che sa valorizzare i punti giusti con grazia ed eleganza, senza rinunciare alla funzionalità di un costume di scena. Abbiamo lavorato benissimo insieme!

Lo spettacolo affronta anche l’assurdità di certe situazioni legate alla malattia, come l’aneddoto delle zanzare durante la chemio. Come è nata questa idea?

L’idea è nata chiacchierando con un conoscente che stava facendo la chemio, anche se altre mi hanno assicurato che le zanzare pungono lo stesso! Ma gli aneddoti assurdi non finiscono qui: nello spettacolo racconto quella volta che mi hanno comunicato la diagnosi saltellando o quell’altra volta che sono andata a una visita con mia madre e ho dovuto consolare lei, o ancora quella volta che il chirurgo estetico si è trasformato in un Giorgio Mastrota venditore di protesi ed espansori. Vedere per credere!

Parli di usare il cancro per svincolarti da serate noiose. Quanto c’è di liberatorio in questa autoironia e come reagisce il pubblico a questo tipo di umorismo?

Vorrei cercare di dare al cancro una dimensione di quotidianità, svincolandolo dalle retoriche dell’eroe, della guerra, della grande sofferenza che in qualche modo mitizzano la faccenda col risultato di considerare il tumore un tabù e pensare che le persone che lo affrontano siano esseri soprannaturali, quando invece vorrebbero solo vivere la vita come tutti, ma con un ospite in più.

Il pubblico è inizialmente spiazzato, poi si rilassa ed è molto complice nel gioco che la scena propone: la risata è liberatoria e rende tutto più facile!

Lo spettacolo è in programma dal 21 al 23 marzo 2025. Cosa speri di creare nel pubblico in questi giorni di rappresentazione? Qual è il messaggio più importante che vorresti lasciare?.

Mi piacerebbe che il pubblico riuscisse a viaggiare con me nel magico mondo delle disavventure legate alla malattia, trovando nel nostro incontro una forma di condivisione, un invito a guardare la realtà da un’altra angolazione, che trasformi in sensazioni positive ciò che comunemente è visto come un tema negativo, doloroso o imbarazzante.

Si può ridere con e del cancro? Certo! Si può essere autoironici? Certo che si! Allora va raccontato!

Ridere di ciò che ci fa soffrire non significa sminuirne il valore o ignorarne la gravità, ma piuttosto prendere consapevolezza del nostro potere di trasformare anche le esperienze più dure in occasioni di crescita.

Considerando il coinvolgimento emotivo dello spettacolo, come ti prepari fisicamente e mentalmente prima di ogni performance?

Non ho un rito particolare, ma di solito mi alleno cantando perché mi svuota la mente e mi rilassa (e rilassa anche il diaframma che è fondamentale!) e poi il trucco è importantissimo: è il momento in cui raccolgo i pensieri e posso avere il tempo necessario per prendermi cura di me.

Dopo “Da fuori tutto bene”, quali sono i tuoi prossimi progetti teatrali e come pensi che questa esperienza influenzerà il tuo lavoro futuro?

Innanzitutto, mi piacerebbe che lo spettacolo arrivasse a quante più persone possibili, collaborare con le associazioni che si occupano di cancro al seno e/o pazienti oncologiche, con gli ospedali, gli ordini dei medici e con le scuole per provare a tradurre la mia esperienza in azioni che possano creare più consapevolezza e più dialogo sul cancro…perché trattarlo come un tabù non ci porta da nessuna parte! Poi, il progetto più immediato è Da fuori tutto bene il podcast (che si può ascoltare qui: https://open.spotify.com/show/4hUNjSz2mtDgkpUkvhJoGc?si=RZrgXYt2TCiNdLzpne75KA). Per ora abbiamo iniziato con 6puntate, ma vorremmo ampliarlo anche con testimonianze, interviste e contenuti dedicate alle esperienze di altre persone. E poi dobbiamo scrivere la seconda parte dello spettacolo con tutti gli aneddoti e gli episodi che non abbiamo potuto inserire in questo, altrimenti sarebbe diventato Il Signore degli Anelli!

C’è qualcosa di profondamente potente nel raccontarsi senza filtri. Nel portare in scena non solo una storia, ma un pezzo di sé. Giulia lo fa con grazia, con coraggio, con quella rara capacità di farci ridere proprio dove pensavamo si potesse solo piangere. Di farci riflettere proprio dove pensavamo si potesse solo sopravvivere.

“Da fuori tutto bene” non è solo uno spettacolo. È uno specchio.

Uno di quelli che ci costringe a guardarci dentro, a rivedere le nostre fragilità, i nostri silenzi, le nostre maschere. Ma soprattutto, è un invito potente a vivere con verità, a rompere i tabù, a trasformare anche le esperienze più difficili in possibilità di connessione umana profonda.

Perché sì, si può ridere anche del dolore. Perché sì, il teatro – come la vita – è fatto di ombre, ma anche di luci che sanno attraversarle.

Grazie Giulia, per averci aperto il tuo mondo. Per averci insegnato che la forza non sempre urla…

…a volte, semplicemente, sorride.

Fotografo: Elena Vanni

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa, Giornalista, Blogger, Influencer, Opinionista televisiva.

Autrice di numerosi saggi e articoli scientifici.

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