Da dodici anni porta in scena con la Compagnia Enter uno spettacolo che non è solo teatro, ma memoria viva, impegno civile, emozione collettiva. “Giovanni e Paolo”, scritto da Alessandra Camassa con un prologo di Francesco Sotgiu, è un viaggio dentro l’anima di due uomini che hanno segnato per sempre la storia d’Italia: Falcone e Borsellino. A dirigere e interpretare questa potente opera è Luca Milesi, regista attento, attore sensibile, custode di una narrazione che ogni volta torna a interrogarci: cosa ne abbiamo fatto del loro sacrificio? Lo abbiamo incontrato per farci raccontare il cuore di questo progetto, le sue scelte artistiche, la sua visione del teatro come strumento di coscienza e resistenza.
Cosa ti ha spinto a portare in scena, per ben dodici anni, la storia di Falcone e Borsellino?
Prediligo da sempre il Teatro Storico e Civile, sono convinto che una delle missioni delle compagnie sia quella di offrire ai più giovani un supporto alla loro consapevolezza, alla loro conoscenza del mondo. La storia di Falcone e Borsellino raccontata con le parole di un magistrato – la Dott.ssa Alessandra Camassa – che ebbe l’opportunità di crescere come pubblico ministero a stretto contatto con lo stesso Borsellino, offre uno spaccato inedito sul rapporto umano solido eppure non privo di contrasti che esisteva fra i due magistrati uccisi nel 1992. E da ultimo, ma non certo per importanza, il fattore “regressione” è stato decisivo. Nel nostro paese la lotta alla criminalità organizzata dagli anni ’90 ad oggi non ha raggiunto i risultati che si potevano immaginare e sperare dopo le Stragi del ’92 e del ’93, la magistratura è spesso finita sotto attacco subendo processi mediatici che l’hanno delegittimata agli occhi dei cittadini. Quindi di rappresentazioni come questa ne servirebbero non una all’anno, ma una al mese e forse anche di più.
In che modo è cambiato il tuo approccio registico nel corso delle varie edizioni dello spettacolo?
Nel corso degli anni, con il contributo fondamentale di tutta la compagnia che lo porta in scena con me, ho limato la parte introduttiva che racconta l’infanzia e l’adolescenza dei due magistrati nella Palermo degli anni ’30 e di quelli di poco successivi alla fine della seconda guerra mondiale, gli anni della loro scelta “da quale parte stare”.
Come hai scelto di rappresentare la dimensione “non terrena” in cui si ritrovano Giovanni e Paolo?
Con l’estrema semplicità di uno spazio vuoto, illuminato da luci soffuse, con sole due sedie.
Quali sono stati i momenti più complessi da dirigere o interpretare?
Il testo di Alessandra Camassa lascia parlare un aspetto del rapporto fra Falcone e Borsellino per lo più nascosto, di cui pochi erano a conoscenza. Due grandissimi amici fermamente convinti delle loro idee, anche diverse, ma soprattutto dotati di caratteri molto, troppo forti, al punto di doversi talvolta allontanare l’uno dall’altro per non soffrire, per non scontrarsi. Ecco, questi angoli sono quelli che soprattutto dal punto di vista interpretativo nei primi anni di repliche hanno destato più domande. Poi con il tempo si cresce, come persone e come registi, quello che magari a lungo è sembrato un nodo irrisolvibile si allenta e si scioglie da solo con una semplice intuizione, favorita dalla metabolizzazionedalle esperienze di vita.
Come hai lavorato con gli attori per restituire verità, rispetto e profondità ai personaggi?
Quando inizio un lavoro di regia su un’opera nuova cerco subito un indirizzo che faccia capire agli spettatori, una volta aperto il sipario, per quale motivo ho scelto quel testo e non un altro. Da quello deriva un lavoro di ricerca sulle identità dei personaggi che in prima battuta conduco proponendo agli interpreti quella che è la mia idea; a quel punto inizia un lavoro nel quale diventanofondamentali la loro creatività e la loro fantasia.
Il testo di Alessandra Camassa ha una forza emotiva potente: come hai integrato la regia per valorizzarlo senza sovrastarlo?
Mi sono imposto di non aggiungere nulla che provenisse da personali convinzioni. La Dott.ssa Camassa ha conosciuto di persona entrambi i magistrati, quello che ci offre con il suo testo è il superamento di ogni retorica, l’aggiunta di qualcosa apparirebbe da subito posticcia. Diverso è il caso del prologo iniziale curato da un membro del nostro team. In quella prima mezz’ora noi raccontiamo chi erano Falcone e Borsellino da giovani, negli anni che precedettero il loro ingresso in magistratura. Nello spettacolo la loro attività di giudici non viene raccontata, il testo della Dotto.ssa Camassa li inquadra quando si trovano già nella Casa degli Uomini Onesti.
Qual è per te la scena simbolo dello spettacolo?
Se rispondessi a questa domanda svelerei un effetto a sorpresa, un jolly calato nel racconto dalla stessa autrice che ci aiuta a comprendere molte cose…
Che tipo di responsabilità senti nel dare voce a due figure così centrali nella coscienza civile italiana?
Ai miei tempi del Liceo, fra gli anni ’80 e ’90, si assisteva al sorgere dei primi negazionismi storici e, di conseguenza, alla nascita delle prime campagne dal titolo “Per Non Dimenticare”. All’epoca si trattava dell’Olocausto, dei campi di sterminio, qui si parla di altro, ma la personale partecipazione a quei movimenti giovanili che volevano conoscere e capire per tramandare mi ha segnato definitivamente. Se poi consideriamo l’Italia come una repubblica fondata non sul lavoro ma sul mistero, si può capire come sia necessario tramandare la memoria di chi è saltato in aria su un’autostrada o sotto casa della madre proprio perché alcuni di quei misteri li voleva svelare. Tanto più che al termine di alcune rappresentazioni nelle scuole mi è capitato di sentirmi domandare da alcuni alunni, tra l’atro rimasti entusiasti: – “Scusi regista, ma quei due che avete rappresentato sono esistiti veramente?”.
Hai mai avuto il timore di risultare retorico nel trattare un tema così delicato?
Il timore no, ma la consapevolezza, soprattutto negli istituti scolastici, di poter sembrare superfluo agli occhi di chi ama la scuola che si sofferma sul “come” e non sul “ peché ” delle cose, quello si. Si tratta però di un problema loro, non è certo il mio.
Com’è cambiata la tua percezione di Falcone e Borsellino nel corso degli anni, vivendo questa esperienza?Sicuramente ho imparato a percepirli per quello che erano veramente, due persone in carne ed ossa, con i difetti e i pregi di ogni essere umano, non quelle icone da museo che talvolta ci ha propinato certa televisione.
Cosa significa, per te, oggi, essere un uomo onesto?
Quello che significava ieri, andare a dormire con la consapevolezza di non aver chiuso gli occhi per convenienza di fronte a qualsivoglia ingiustizia. Se non fossi stato così da giovane forse più avanti avrei fatto ben altra carriera, ma preferisco chiudere gli occhi la notte facendomi scaldare dagli ideali, anzi dall’IDEOLOGIA, che – parafrasando Gaber – penso ancora che ci sia. Poi magari al risveglio l’ansia per le incertezze sul presente a poco a poco mi cinge d’assedio: in quel caso faccio finta dinulla, la ignoro e vado a lavarmi.
Quali sono le reazioni più forti o inaspettate che hai ricevuto dal pubblico?
Lo spettacolo ha sempre ricevuto grandi consensi, ma fra tutti quello che mi è rimasto impresso in maniera particolare è stato il commento del giudice Roberto Scarpinato, pronunciato dopo aver assistito alla prima rappresentazione in assoluto: – “Milesi, lei ha compiuto un atto rivoluzionario, ha presente”?
Che valore ha, secondo te, il teatro civile oggi in Italia?
Se dipendesse da me verrebbe elevato al rango di Disciplina nel programma ministeriale di entrambi i cicli dell’obbligo scolastico. Ciò che conta veramente è non indebolirne la capacità di coinvolgimento scambiandolo per uno strumento politico.
Se potessi aggiungere oggi una scena nuova allo spettacolo, cosa racconterebbe?
Beh… Un commento di entrambi i giudici, in diretta su Radio Rai, sulle leggi che vorrebbero limitare l’uso delle intercettazioni… Credo che verrebbero censurati.
Cosa speri rimanga dentro lo spettatore quando cala il sipario?
Curiosità nei più giovani. Rabbia in quelli che c’erano.
Luca Milesi non dirige soltanto uno spettacolo: custodisce una memoria, la riporta in vita, la rende carne viva sulla scena. “Giovanni e Paolo” non è un tributo, ma una domanda aperta lanciata ogni sera al pubblico: chi siamo diventati dopo di loro? E cosa siamo disposti a fare, oggi, per meritare la loro eredità? In un tempo in cui il confine tra verità e oblio si fa sempre più sottile, il teatro di Milesi continua a essere un faro. Uno spazio dove la parola “onestà” non è solo nostalgia, ma scelta quotidiana.